domenica 9 novembre 2008

La nascita dell'opera impresariale a Venezia e "L'incoronazione di Poppea" di C. Monteverdi

Il melodramma, concepito come spettacolo a pagamento, nacque a Venezia, alla fine degli anni trenta del XVII sec. La società veneziana era interamente fondata sul commercio, e i ricchi aristocratici, proprietari dei teatri, videro in questo genere una forma d’investimento. L’opera in musica, dopo la sua prima fase “cortigiana” svoltasi a Firenze e Mantova, si era spostata a Roma dove, grazie alla particolare organizzazione sociale dello stato pontificio e al lavoro di musicisti e letterati di rilievo, mutò forma e soggetti. Fu questo nuovo tipo di spettacolo, sensibile al gusto del pubblico per soggetti realistici (come quelli tratti dalla agiografia dei santi) e per lo sfarzo scenico-rappresentativo, che una compagnia di cantanti romani fece arrivare nella città lagunare, dove in pochissimo tempo proliferò e si evolse ulteriormente.
Nel 1637 il librettista Benedetto Ferrari, ed il musicista di Tivoli Francesco Manelli, compositore e cantore della cappella di San Marco, alla guida di una compagnia di cantanti romani e veneziani, affittarono il teatro S. Cassiano (utilizzato fino a quel tempo solo per le rappresentazioni della commedia dell’arte) e misero in scena l’Andromeda. La serata inaugurale era riservata ai soli invitati ma, alle repliche seguenti tutti poterono assistere agli spettacoli mediante l'acquisto di un biglietto d’ingresso. Prima d'allora lo spettacolo d'opera era concepito come un evento unico e irripetibile, riservato a principi e nobili che potevano disporre di un teatro privato. Il pubblico accolse con entusiasmo quest’innovazione e il successo ottenuto dall'opera in musica fu tanto grande che i teatri pubblici si moltiplicarono rapidamente. La stessa compagnia l’anno seguente rappresentò nel medesimo teatro la Maga fulminata; mentre due anni dopo s’inaugurò il teatro dei SS. Giovanni e Paolo, fatto costruire dalla famiglia Grimani; nel 1640 fu inaugurato il teatro San Moisè per volontà della famiglia Giustiniani; nel 1641 si aprì il teatro Novissimo, e prima della fine del secolo, a Venezia esistevano ben 16 teatri.
La famiglia che faceva costruire il teatro agiva come impresaria oppure affittava la sala a chi voleva assumersi il rischio dell'impresa. I palchetti, innovazione veneziana, erano affittati per la sola stagione d'opera, oppure per tutto l'anno: per accedervi si pagavano quattro lire venete, mentre con trentadue soldi si aveva diritto ad una sedia in platea. L'apertura del teatro pubblico diede e all'opera in musica una base sociale, facendo mutare il suo carattere di forma d'arte aristocratica, nella quale l'artista creatore era l'unico arbitro, in quella di un genere destinato a tutti. Lo spettatore, assolto il suo obbligo pagando il biglietto, poteva accettare l'opera applaudendo, oppure rifiutarla fischiando. L’impresario quindi gestiva la macchina teatrale, seguendo i gusti del pubblico che svolgeva un’azione determinante sull’indirizzo del genere. La figura del cantante, soprattutto quella del castrato e del suo virtuosismo vocale, acquistò in questo periodo una grande importanza, e contribuì alla rottura dell’equilibrio tra recitativo e aria. Su quest’ultima, musicalmente sempre più seducente, si concentrava l’attenzione e l’interesse del pubblico, e in questo contesto l’aspetto letterario perse notevolmente d’importanza. In questo genere i personaggi utilizzati non erano più quegli arcadici (Orfeo, Euridice, Dafne), ma prevalsero soggetti concreti: magistrati romani, imperatori, gente comune, che avevano più presa sul pubblico. Per il medesimo motivo si giunse alla mescolanza tra genere tragico e comico.
Durante gli anni quaranta la maggior parte dei librettisti veneziani apparteneva all’accademia degli “Incogniti”, e anche Gian Francesco Busenello, noto soprattutto per le sue poesie in dialetto veneziano faceva parte di questa confraternita. Egli fu l’autore dei libretti delle prime opere del Cavalli (Gli amori di Apollo, Dafne e Didone) e fu probabilmente proprio il Cavalli che lo mise in contatto con Monteverdi. Il pubblico era sempre più attratto dalle opere spettacolari, complicate, dove la bravura dello scenografo e dei macchinisti faceva passare in secondo piano la creazione del poeta e del musicista. Il Busenello però non sembra interessato al lato spettacolare della rappresentazione, ma ai caratteri dei personaggi, alle emozioni e alle passioni che li fanno agire. Questo suo stile risultava congeniale a Monteverdi e alla sua concezione estetico-musicale di rendere gli affetti in musica.
La prima dell’Incoronazione di Poppea avvenne presumibilmente la sera di Santo Stefano del 1642 nel Teatro di SS. Giovanni e Paolo a Venezia e proseguì per tutto il carnevale dell'anno successivo. L’opera ebbe subito un cla¬moroso successo e fra gli interpreti si ricorda la celebre Anna Renzi, romana, che vi sostenne la parte di Ottavia. L'opera venne ripresa sempre a Venezia nel 1646 ed infine a Napoli dalla compagnia dei "Febi harmonici" nel 1651; non è escluso però che la stessa compagnia l'abbia rappresentata anche in altre località finora rimaste ignote. In seguito l'Incoronazione cadde in oblio fino alla riscoperta avvenuta in epoca moderna. La partitura dell’opera ci è giunta in due redazioni manoscritte con significative divergenze tra l'una e l'altra, conservate a Napoli e a Venezia.
L’argomento de L’Incoronazione di Poppea è tratto dal XIV libro degli Annali di Tacito, fonte dalla quale la cultura dell'età barocca traeva una visione etica e politica in pieno accordo con il moralismo utilitaristico del proprio tempo. Il secondo atto attinge anche dalla tragedia Octavia attribuita a Seneca. Nelle mani del Busenello il soggetto tacitiano subisce tutta una serie di trasformazioni e stravolgimenti determinati da un lato da ragioni di moralità (o amoralità) del mondo romano nel venire traslato nella dimensione teatrale barocca, dall'altro da evidenti ragioni di carattere spettacolare. L'immoralismo di fondo che trionfa in questo melodramma non deve stupire: siamo nei primi anni dopo il 1640 quando da buona parte dell'Italia si registra una sorta di insofferenza per quel pesante ed oppressivo moralismo imposto negli ultimi decenni del XVI secolo. Di conseguenza si assiste a palesi fenomeni di generale rilassamento dei costumi e segnatamente ad un’impensata e coraggiosa affermazione di un particolare aspetto dell'erotismo. È evidente che le estasi amorose di Nerone e di Poppea sono palesemente di carattere erotico. Ciò che invece in quest'opera è convenzionalmente morale viene stigmatizzato e deriso come avviene con chiarezza per le figure di Ottavia e di Seneca. Questo clima di totale rilassamento etico rispecchia, grosso modo, l'ambiente della corte dove si rappresenta l'opera. Quarant'anni prima una così cruda rappresentazione del mondo cortigiano sarebbe stata pericolosa anche se traslata nell'antichità (pensiamo all'innocente satira "Privilegi della corte" del Vecchi nel Convito Musicale). È vero che le corti erano palesemente corrotte però raramente venivano rappresentate con tanto spietato realismo. L'incoronazione rimane dunque, oltre che uno specchio delle convenzioni teatrali e spettacolari del tempo, una configurazione forse pessimistica ma non improbabile della società barocca veneziana. Secondo C. Sartori sotto il soggetto storico dell’Incoronazione ci sarebbe celato anche un riferimento alle vicende della corte di Mantova, dove Vincenzo Gonzaga aveva fatto annullare il suo matrimonio con Margherita Farnese, e aveva sposato Leonora de’ Medici. 
Busenello interpreta la storia con una certa libertà creando una trama dove gli avvenimenti si succedono con un crescendo d’interesse, mescolando abilmente il drammatico, il patetico, e il comico, anche se non esistono veri e propri personaggi comici. Sappiamo che Monteverdi imponeva ai librettisti il suo modo di vedere le cose, ed era sempre pronto a modificare egli stesso il testo quando questo non gli piaceva (si pensi alla collaborazione con Striggio e al finale dell’Orfeo). Certamente il Busenello non è grande poeta, e non sempre sa sottrarsi al gusto del suo tempo: il suo linguaggio è retorico e pomposo, ma nonostante questo il suo lavoro rivela una notevole modernità. Dopo l’Incoronazione la sua poesia degenerò cedendo al cattivo gusto dilagante, inserendo sempre più scene comiche, autentiche volgarità, alternate al tragico e al tragicomico. Per la rappresentazione del 1642 venne stampato solamente l’argomento dell’opera; il libretto vero e proprio come lo aveva concepito il poeta, senza le numerose modificazioni apportate dal musicista, venne pubblicato solo nel 1656, nelle Ore Ociose: una raccolta comprendente i cinque drammi per musica scritti dal Busenello. Dal confronto fra questa stampa e il testo riportato sulla partitura musicale, si può vedere quali siano stati gli interventi montevediani sul testo, e valutarne il valore e l’efficacia teatrale. Monteverdi vaglia e implacabilmente taglia e modifica scene, episodi, versi con un’intuizione sicura dettata dalla situazione drammatica, dal momento scenico e da tutte le esigenze teatrali. Il musicista sopprime, probabilmente per problemi legati al ritmo dell’azione il coro di Virtù che, secondo il volere del Busenello, dopo il congedo di Seneca dai famigliari, cantava il coraggio e la dignità del filosofo dinanzi alla morte. Dopo la scena in cui Nerone festeggia con gli amici la morte di Seneca, il Busenello aveva previsto un duetto d’amore, che Monteverdi elimina in toto, forse perché per esigenze formali quattro duetti gli parevano eccessivi. Dopo la scena dell’incoronazione il librettista voleva finire con l’apparizione di Venere e un coro di Amori che insieme cantavano la gloria di Poppea; anche qui il musicista prende un’importante decisione aggiungendo come finale dell’opera un appassionato duetto d’amore, tra Nerone e Poppea.

LA VICENDA
Prologo. Fortuna, Virtù e Amore (probabilmente comparendo sopra una nube scenografica) annunciano allegoricamente la "moralità" dell'opera: Fortuna svillaneggia Virtù definendosi unica fonte di felicità; Amore proclama la sua sovranità su ambedue e a questo scopo porta come esempio lo spettacolo che sta per iniziare. 
Atto primo. Ottone sotto le finestre della casa di Poppea sfoga la sua travolgente passione amorosa, quando improvvisamente s'accorge che le sentinelle di Nerone, fortunatamente addormentate, sono nei pressi. Da ciò Ottone arguisce il tradimento di Poppea e lamenta la sua infelicità e le vane promesse dell'amata. Le sentinelle si svegliano deprecando la loro condizione di continui custodi dell'incolumità dell'imperatore, il quale s'affida esclusivamente ai consigli di Seneca e poco si cura del dolore di sua moglie, l'imperatrice Ottavia, e dei disordini che travagliano l'Armenia e la Pannonia. Nerone e Poppea escono e quest'ultima vorrebbe ancora trattenere l'imperatore fra le sue braccia. Nerone è costretto a lasciare la sua amante poiché a Roma nessuno dovrà sapere della loro relazione finché Ottavia non sarà stata ripudiata. Poppea spera ambiziosamente di giungere al trono ma la fida Arnalta le fa presente i pericoli di morte che incombono su di lei: infatti Ottavia ha scoperto l'amore segreto del marito e trama vendetta. Ottavia si lamenta del suo triste stato di moglie tradita e di regina disprezzata, la nutrice la consola esortandola a vendicarsi. Seneca esorta Ottavia a sopportare con dignità l'avverso destino che la ha colpita quando un valletto si rivolge villanamente al vecchio filosofo tacciandolo di ciarlataneria. Ottavia intanto informa Seneca che Nerone progetta di ripudiarla; Seneca considera amaramente le spine che spesso si nascondono sotto i manti regali e riceve da Pallade l'annuncio della sua morte imminente. Sopraggiunge Nerone e in un drammatico duetto col suo maestro, che tenta di dissuaderlo, afferma la sua risoluta volontà di ripudiare Ottavia e sposare Poppea. L'imperatore esprime tutta la sua sensuale passione a Poppea e le comunica il proposito di elevarla a dignità regale. La donna esulta di gioia, indi subdolamente insinua che il potere di Nerone è nelle mani di Seneca. In uno scatto d'ira l'imperatore ordina di eseguire la condanna a morte del vecchio filosofo entro la sera stessa. Ottone disperato lamenta con Poppea la sua condizione di amante inconsolabile, essa lo esorta a dimenticarla poiché ormai l'aspettano i fasti regali. Drusilla, segretamente innamorata di Ottone, gli rivela il suo amore che viene ricambiato anche se il ricordo di Poppea è ancora vivo.
Atto secondo. Seneca accoglie con gioia da Mercurio l'annuncio della sua morte imminente cui poco dopo fa seguito il messo di Nerone con l'ordine fatale. I familiari di Seneca a tale notizia sono costernati e commossi mentre li filosofo si prepara con grande serenità al trapasso. Nerone, in compagnia di Lucano, profana la memoria di Seneca cantando lodi alle bellezze di Poppea. Ottone depreca di avere accarezzato progetti omicidi verso l'amata Poppea quando sopraggiunge Ottavia che lo induce, suo malgrado, a promettere di sopprimere l'amante di Nerone servendosi di abiti femminili al fine di introdursi in casa di Poppea con maggior facilità. Ottone confida il suo piano a Drusilla la quale, non senza esortarlo alla prudenza, gli consegna i suoi vestiti. Poppea invoca Amore affinché possa vedere realizzato il suo sogno di diventare imperatrice. Mentre la donna dorme, Amore scende dal cielo e s'appresta a difenderla dall'insidia dell'imminente attentato. Ottone, nelle vesti di Drusilla, sta per uccidere Poppea quando per intervento d'Amore l'attentato fallisce. L'allarme dato da Arnalta mette in fuga Ottone che viene scambiato per Drusilla.
Atto terzo. Drusilla attende trepidante Ottone quando giungono i soldati di Nerone guidati da Arnalta che l'arrestano e la conducono al cospetto dell'imperatore dal quale viene condannata a morte. Ottone allora si palesa come unico colpevole dell'attentato e Nerone lo condanna all'esilio e alla perdita dei beni, gli permette però di portare seco l'appassionata e fedele Drusilla. Infine Nerone ripudia Ottavia ed annuncia a Poppea che finalmente potrà diventare sua sposa. L'ex imperatrice in un toccante lamento esprime tutto il suo dolore nell'abbandonare la patria e gli amici, mentre Nerone e Poppea, acclamati dal senato e dai popoli, celebrano il loro trionfo in un’apoteosi cui prendono parte anche Amore e Venere dal cielo.

L’Incoronazione di Poppea è la prima opera composta su argomento storico, ma la vera novità sta nel carattere realistico dell’argomento, scelto senza nessuna preoccupazione moralistica: l’amore tra Nerone e Poppea, un amore vero, sensuale, passionale, e non “arcadico” come quello tra Orfeo ed Euridice. Il libretto del Busenello offre al musicista un vero dramma, cioè un conflitto di passioni che in una stessa situazione provocano reazioni diverse nei diversi personaggi, e condizionano il loro modo di agire: il dramma si sviluppa in una serie di episodi ben congeniati in una vera progressione di tensioni. Dal punto di vista spettacolare L'incoronazione di Poppea non diverge dalle consuete creazioni veneziane. La presenza dì deità che intervengono copiose nella vicenda che peraltro tranne Amore che salva Poppea dall'attentato di Ottone possono essere agevolmente soppresse senza danno per la sostanza del dramma costituiscono un elemento spettacolare allora imprescindibile da ogni rappresentazione operistica.
In questa ultima opera Monteverdi raggiunge il culmine della sua maturità artistica. È un compendio di tutta la sua esperienza, in una perfetta sintesi di struttura e di espressione. Drammaticamente L'Incoronazione è il prototipo dell'opera storica che doveva, di lì a poco, muovere i primi passi con Cavalli. Musicalmente anticipa l'ordinato Settecento. Nella descrizione affettiva dei personaggi si giunge a personalità dalla netta definizione: Poppea, ambiziosa, perfida ed esperta nell'arte raffinata della seduzione; Nerone, il cui tradizionale aspetto di cinica crudeltà si attenua e si stempera in una dimensione del tutto insolita, dominata dall’insaziabile passione a cui egli è pronto a sacrificare tutto; Ottavia, la regina ripudiata, che alterna momenti di cupa rassegnazione ad aneliti di fremente gelosia; Seneca, figura nobile e austera di filosofo, non priva talvolta di una certa pedanteria; Ottone, infine, è forse il personaggio più interessante dal punto di vista della caratterizzazione drammatica. Se, infatti, per Monteverdi l'umana realtà delle passioni in conflitto è uno dei più validi motivi d'ispirazione, la figura di Ottone colpisce fra tutte proprio per quest’angoscioso e continuo dibattersi fra opposte passioni: gelosia e sete di vendetta da un lato, dall'altro, l'amore vano e senza speranza per Poppea. Tutta questa molteplicità di atteggiamenti trova riscontro in una altrettanto ricca varietà di forme musicali: arie e ariosi soprattutto, inquadrati da sinfonie e ritornelli strumentali e movimentati da frequenti passaggi in tempo ternario, e poi duetti e terzetti. Un cenno particolare meritano anche i due soli cori: il primo, quello dei familiari di Seneca nella sua articolata va¬rietà ci richiama alla memoria i cori dell'Orfeo intercalati dai ritornelli. Mentre questo primo coro si riallaccia in qualche modo alla tradizione del coro tragico, il secondo coro di consoli e tribuni del terzo atto che viene introdotto in scena da una sinfonia che ha tutta l'aria di una marcia trionfale ha già tutte le con notazioni funzionali e decorative del coro d'opera tradizionale.
L'aria vive in quest'opera l'ultimo e più significativo atto di una straordinaria stagione: quel momento in cui la melodia, non ancora legata a rigidi schemi formali, poteva ancora muoversi con una certa libera inventiva, alternando ritmi diversi o introducendo frasi di recitativo o anche basandosi sul sistema delle variazioni strofiche, in cui non solo il canto, ma talvolta anche il basso trovano sempre nuove soluzioni. Le voci, sono ormai definitivamente orientate verso l'espressione degli affetti. In campo strumentale, alla ricerca dei nuovi mezzi espressivi, si affianca e ben presto s’impone la conquista di una tecnica strumentale autonoma. Questa tecnica strumentale porta all’evoluzione di un nuovo stile che arriva a influenzare lo stile vocale, come soprattutto appare evidente nel nuovo tipo di diminuzioni che infiorano il canto nelle opere di questo periodo, che riproducono la caratteristica tecnica degli strumenti ad arco. Nel volgere di pochi anni, la tendenza alle forme chiuse renderà di nuovo possibile il connubio delle voci con gli strumenti, ma il momento delle ultime opere del compositore cremonese coincide con una forma vocale ancora libera, che gli strumenti avrebbero forzato nei loro nuovi modelli ritmici, offuscando irrimediabilmente l'originaria intenzione espressiva della musica.
In quest’ultimo dramma per musica monteverdiano la partecipazione strumentale è ridotta ai minimi termini: due parti di violini e un cembalo per i ritornelli, e il basso continuo per accompagnare le parti vocali, anche perché il teatro Grimano disponeva di una scarna orchestra. Sul manoscritto dell’opera non figura alcuna indicazione strumentale. Per quanto riguarda la mancanza di indicazioni scritte nelle opere veneziane, non bisogna dimenticare che la rappresentazione de l'Orfeo riveste ancora il carattere dell'avvenimento eccezionale, di cui le indicazioni contenute nella partitura offrono una sorta di resoconto legato a quella manifestazione particolare. Al contrario, nel più stabile assetto del teatro pubblico veneziano si era verificato senza dubbio un processo di standardizzazione dell'orchestra, dovuto probabilmente anche a ragioni contingenti, che prevedeva l'uso di determinati strumenti associato a determinate situazioni. Ecco perché non era neanche più il caso di indicare per iscritto la strumentazione che la consuetudine rendeva già noto in partenza.
L’espressione drammatico-musicale e tutta concentrata nella voce dell’attore-cantante. L’impiego delle varie forme musicali è regolato dalla situazione drammatica. Per questo motivo esse appaiono sempre nuove e diverse, e anche le parti più liriche non sono mai statiche e cristallizzate come accadrà nel melodramma di pochi anni più tardi. L’impianto drammatico poggia interamente su un declamato di ampio respiro, che comporta elementi felicemente fusi di recitativo, di arioso, e di parlar cantando. La transizione tra questo e le forme chiuse avviene con grande naturalezza. La musica non ha nulla di spettacolare o di decorativo: non mira a creare ambienti o atmosfere. La caratterizzazione dei personaggi è ottenuta con la pura espressione vocale, che di volta in volta rivela i diversi aspetti del carattere. Nei dialoghi con Poppea, Nerone appare carezzevole e sensuale con un’ombra di malinconia nella scena iniziale, poi violento nel secondo duetto; infine gioiosamente trionfante nella scena che conclude l’opera. Con Seneca prevale l’aspetto collerico e intollerante reso magistralmente con l’uso del concitato, quando l’ira diventa esasperazione “Tu mi sforzi allo sdegno”. Con Drusilla si presenta crudele “Flagelli, funi, fochi…” ancora con l’uso del concitato. La sua durezza esce quando ripudia la moglie Ottavia e la condanna all’esilio. Quando eleva al trono la propria amante “Ascendi, o mia diletta” l’accento solenne e soddisfatto, è reso dai vocalizzi sulla parola “gloria”. Appare poi di nuovo appassionato e ardente nel fremente e quasi morboso duetto finale “Pur ti miro…”che costituisce una delle pagine chiave di tutta l'opera: in esso appunto l'amore travolgente dei protagonisti viene presentato in un’idealizzazione musicale che ne evidenzia tutta la smoderata passionalità. Qui la delirante passione dei due amanti trova la sua più ardente configurazione musicale nell'incessante intrecciarsi di movenze sonore e nell'avvinghiante moto del contrappunti sorretti nella parte grave da un ostinato martellante che sembra volere alludere all'unico pensiero che travaglia i sensi e la mente dei due protagonisti.
È la prima volta che, nel teatro musicale, appare una donna in tutta la pienezza del suo temperamento sensuale. Poppea si rivela subito nell’inflessione della sua prima frase “Signor, deh non partite…”, in realtà ella è ambiziosa e decisa a ottenere ciò che vuole, e Nerone non è che un giocattolo nelle sue mani, che sa come raggirare a suo piacimento come si capisce nell’intonazione della parola “Tornerai?”. Ancora più esplicitamente il suo vero carattere si rivela nella scena dove si confida con Arnalta “Per me guerreggia Amor…”, e quando convince Nerone a condannare a morte Seneca. Nell’aria “Il mio genio confuso…” Poppea che sta per essere incoronata appare quasi incredula di fronte alla realtà di aver raggiunto il suo scopo. Questo stato è reso con melismi voluttuosi e svagati.
Il carattere di Ottavia si manifesta subito nel monologo dove esprime il suo dolore per la sua oltraggiata dignità di sposa e sovrana “Disprezzata regina…”, un recitativo-arioso cupo e veemente che sfocia nell’agosciosa progressione “Dove sei? In braccio di Poppea dimori e godi…”. La sua ira esplode poi nell’invettiva piena di violenza “Giove, se fulmini non hai per punir Nerone…”. Il suo dolore riaffiora poi nel sobrio recitativo “Addio Roma…”. Seneca compare in scena con un recitativo vagamente pomposo con vocalizzi e fioriture, mentre davanti all’annuncio della sua morte trova accenti di vera nobiltà, in un arioso d’ampio respiro e intensamente espressivo. Il recitativo “Amici è giunta l’ora” è uno dei momenti di maggior tensione drammatica. Mentre i parenti, con un lento sviluppo cromatico ascendente pronunciano una funebre trenodia corale “Non morir Seneca…”. Il primo personaggio che appare in scena nel primo atto è Ottone. Si presenta con un lungo recitativo melodico che nell’invocazione all’infedele Poppea si trasforma in arioso, ed è seguito da un recitativo concitato “Io son quell’Otton…” che si intensifica attraverso l’insistenza del testo resa musicalmente con un breve motivo ossessionante. Egli viene così caratterizzato come un uomo dominato da un contrasto di sentimenti: l’amore, l’odio e il desiderio di vendetta. Nel trepido ed appassionato monologo di Ottone non sussistono più schematologie prècostituite ma si trapassa da un mezzo espressivo all'altro con la maggiore libertà: dall'arioso espressivo al recitativo senza soluzione di continuità ma solo seguendo l'ispirazione dell'urgenza drammatica. Drusilla esprime il suo amore per Ottone nella bellissima Aria da capo “Felice anima mia…”, e nella breve aria, viva e intensa, che prepara la scena dell’arresto. I due brevi, snellissimi ariosi: “Misera me…” e “Adorato mio ben…” esprimono con sincerità intensa e appassionata il sentimento della fanciulla, decisa a sacrificarsi per l’uomo che ama.
Monteverdi non tralascia nulla dei suoi personaggi, neppure in quelli secondari. Il temperamento godereccio e lussurioso di Lucano si manifesta in una breve scena pervasa da una vera orgia di vocalizzi. La nutrice di Ottavia è il personaggio meno caratterizzato, mentre Arnalta è meglio delineata nei suoi colloqui con Poppea. La ninna nanna di Arnalta “Oblivion soave” è un’aria del sonno archetipica il forma di canzone con variazioni. Il Valletto, che anticipa moduli pergolesiani e mozartiani, appare beffardo nell'aria sfolgorante di comicità dove deride e motteggia il vecchio filosofo. Questo ondeggiare ambiguo tra il comico, il tragico e il grottesco è una delle più significative componenti della connotazione barocca dell'Incoronazione. Il carattere comico, venato di erotismo, entra anche nella deliziosa scena d’amore (un vero intermezzo d’opera) tra il valletto e la damigella. Persino i due pretoriani che vegliano davanti alla casa di Poppea sono disegnati con estrosa bravura: l’uno arrabbiato per l’ingrato lavoro che deve fare contrasta con il patriottismo del secondo.
Nell’Incoronazione, che diverrà il prototipo dell’opera storica, gli unici personaggi difettosi drammaticamente, e di conseguenza anche musicalmente sono quelli mitologici, cioè gli interventi del deus-ex-machina: Amore che riallaccia l’opera del passato. Nonostante questo, singolari motivi d’interesse presenta anche l’aria di Amore “O sciocchi, o frali sensi mortali”, dell’atto II che ha oltre all’indicazione autografa “Aria”, unica del genere in tutta l’opera, ha uno schema addirittura quadripartito ABBA.  In quest’opera Monteverdi realizza mirabilmente l’ideale equilibrio tra espressione drammatica ed espressione musicale. Dopo di lui il dramma per musica si trasformerà in melodramma, la declamazione e il canto diverranno recitativo e bel canto.
Dal punto di vista metrico il testo del libretto si presenta molto omogeneo, prevalentemente basato sull’uso dei versi endecasillabo e settenario. Questa regolarità è rotta saltuariamente dall’uso del quinario (piano e tronco) e dell’ottonario. La sottile differenziazione tra recitativo e aria presente nella musica rispecchia la struttura testuale. Le arie presentano una grande varietà per numero di versi, strutture metriche e rime, e formano un continuum con il resto del testo. Anche nei recitativi non mancano rime baciate, e non solo a fine periodo.
Riporto qui di seguito il testo del duetto finale tra Nerone e Poppea, non presente nel libretto del Busenello:

Pur ti miro, pur ti godo,
Pur ti stringo, pur t’annodo;
Più non peno, più non moro,
O mia vita, o mio tesoro.
Io son tua, tuo son io,
Speme mia, dillo, dì.
Tu sei pur l’idolo mio,
Sì, mio ben, sì, mio cor, mia vita sì.

Bibliografia
DE’ PAOLI DOMENICO, Monteverdi, Rusconi, Milano 1979
GALLICO CLAUDIO, Monteverdi: Poesia musicale, teatro e musica sacra, Einaudi, Torino 1979
BIANCONI LORENZO, Storia della Musica vol.5, E.D.T., Torino 1982

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