martedì 28 ottobre 2008

Analisi del madrigale “Vivo in guerra mendico e son dolente” di Luca Marenzio

Nella vastissima produzione marenziana, il IX libro dei madrigali a cinque voci edito l’anno della sua morte avvenuta nel 1599, rappresenta forse l’apogeo della sua evoluzione stilistica. In questa raccolta Marenzio pur rimanendo ancorato all’ormai codificato linguaggio musicale cinquecentesco, ne esplora tutte le possibilità espressive, melodiche e armoniche, senza però mai giungere alle innovazioni stilistiche che ormai la nuova sensibilità musicale stava suggerendo, prima fra tutte la monodia. In questo madrigale, in particolare, si vede come il compositore sia ancora stabilmente legato ad una struttura contrappuntistica, dove ogni voce è pari per importanza alle altre. L’organizzazione musicale del testo è pressoché lineare e sostanzialmente fedele alla regole per cui ogni voce deve cantare tutto il testo. Fa eccezione a batt.13 l’emistichio “altro ristoro” è affidato prima alle due voci superiori, e poi a batt.15-16 cantato dal Q contemporaneamente al verso successivo in modo da ricreare musicalmente l’enjambement logico testuale del discorso. Il testo, musicato dal Marenzio è una canzone-ode di Antonio Ongaro, articolata in due quartine di endecasillabi a rima incrociata ABBA, ABBA. Si tratta di un breve monologo con chiari riferimenti erotici, nel quale il poeta riflette sui suoi tormenti amorosi, e sulla bellezza della sua amata che è l’unico ristoro dei suoi affanni. 

Vivo in guerra mendico e son dolente A
Senza lei ch’è mia pac’e mio tesoro, B
e ne’ miei gravi affanni altro ristoro B
che gl’inganni d’Amor non ha la mente. A

S’io miro in bel giardin rosa ridente, A
se bianco avorio, ricca perla ed oro, B
l’amo e sospiro, e dico: ella c’honoro B
tal’ha’l sen, tal’ha’l crin vago e lucente. A

Marenzio pur rispettando sostanzialmente la struttura del testo, ne pone alcune parti in primo piano. La musica procede linearmente verso dopo verso, ma con la ripetizione di alcune parole, il compositore ristruttura a suo modo il testo poetico. Nella prima quartina le parole che Marenzio mette in risalto, con la loro ripetizione secondo la figura retorica dell’analessi sono: “Vivo in guerra” e “gl’inganni d’amor”. Queste sono le parole-chiave del senso della prima quartina, nella quale il poeta si lagna del suo stato di solitudine. Come si vede dallo schema riportato prima alcuni motivi.parola comprendono l’intero verso (versi 2, 4 e 8) mentre gli altri versi sono sezionati in più segmenti strutturali diversi. In particolare la seconda quartina è musicalmente più segmentata, in quanto qui la musica va a sottolineare la frammentazione concettuale intrinseca nel testo. Nonostante questa grande varietà di motivi musicali, Marenzio tiene compatta la forma di questo madrigale con due importanti riprese tematiche. Il motivo parola del quarto verso, è una chiara elaborazione del tema del primo verso “Vivo in guerra”, in tal modo la prima quartina assume le caratteristiche di una piccola forma chiusa. Allo stesso modo anche nella seconda quartina c’è un meno evidente ma pur sensibile ritorno tematico tra il motivo della prima parte del quarto verso e quello dell’ultimo verso. Vediamo come nell’ultimo Marenzio la costruzione additiva del madrigale cinquecentesco, sta lasciando il posto ad una forma più organizzata e musicalmente definita. Il primo verso è diviso in due motivi parola contrastanti. “Vivo in guerra” è contraddistinto da una linea melodica nella quale, sia in due ampi salti di quinta o quarta verso il basso e successiva sesta verso l’alto, sia il successivo vocalizzo fiorito, sono un sinonimo del turbamento dell’animo del poeta che qui il testo esprime. L’utilizzo della tecnica imitativa, quasi un canone, fra le coppie A. e C. e la successiva ripetizione fra B. e T. amplifica questo essere tormentato, in guerra appunto. Nella seconda parte del verso si ha un aggravamento dei valori, perché l’essere dolente comporta una certa lentezza nei movimenti. Il nuovo elemento tematico è sempre sottoposto all’incastro imitativo fra tutte le voci, ma prevale l’aspetto accordale ed il colore dovuto cromatismo armonico, ottenuto attraverso la concatenazione di triadi che presentano lo stesso suono ma alterato, quali a batt. 4, 5 e 6 La magg.-Do magg., Do magg.-Mib magg. Queste successioni accordali, unite a procedimenti di grande libertà ma molto espressivi, quali le note di passaggio dissonanti di seconda specie, il ritardo della Sesta a bat. 6 preparato su di una dissonanza, sul movimento cromatico del basso, rappresentano la figura retorica del pleonasmo che enfatizza la cadenza e serve a rappresentare musicalmente il significato delle parole mendico e dolente. Vediamo subito come nel linguaggio dell’ultimo Marenzio l’adesione testo musica non si limita al manieristico madrigalismo onomatopeico e descrittivo. Nel secondo verso “Senza lei ch’è mia pac’e mio tesoro” le voci B, T, A, e C procedono in modo pressoché sillabico quasi in omoritmia, mentre il Q è rispetto a loro sfasato di un quarto di battuta. Qui l’assenza della donna amata è resa musicalmente attraverso la figura retorica della noema. In tale struttura la mancanza di sincronia della voce centrale con il resto delle parti può simboleggiare l’assenza dell’amata che risiede al centro dei pensieri del poeta. In questa sezione poi prevalgono le triadi allo stato fondamentale. La consonanza e quindi usata come sinonimo musicale della pace che solo la presenza della donna amata può donare.  Anche il terzo verso è diviso in due motivi parola, ma ora il secondo si lega con un enjambement al quarto verso facendone un unico motivo parola. La prima parte del terzo verso “e ne’ miei gravi affanni” sono in primo piano due linee discendenti a distanza di 10° che, unite ad una catena di ritardi 7-6, prodotti dal T. e dal Q. fanno si che questa sezione prenda la caratteristica forma della figura retorica della catabasi, che qui serve a connotare i gravi affanni. Il C. procede invece con una linea per moto contrario, ed arricchisce la cadenza con note di passaggio dissonanti. La seconda parte del terzo verso “altro ristoro”, anche se isolato a bat. 13 nelle due voci più acute, serve da ponte logico testuale per il quarto verso, come poi è confermato dalla sovrapposizione testuale che avviene nella misura seguente. Anche qui il significato della parola ristoro viene realizzato da intervalli consonanti. Il quarto verso è diviso in due brevi incisi musicali. Il primo sulle parole “che gl’inganni d’Amor” si articola in una complessa struttura contrappuntistica-imitativa fra tutte e cinque le voci, quasi a voler rappresentare la pluralità degli inganni. Questa zona si stempera su un andamento più omoritmico delle voci sulle parole “non ha la mente”, che conduce ad una cadenza plagale a batt.18 che chiude la prima quartina. Questa cadenza risulta alquanto sezionante, e non a caso avviene a metà composizione. Anche in questa zona il colore armonico dovuto alle sucessioni accordali Fa magg - La magg. di bat.15-16 e di Sol min - Sol magg. sta a caratterizzare la parola inganni. Il soggetto della seconda quartina è la bellezza della donna desiderata, ed in particolare il suo corpo e la sua bellezza esteriore. Qui le parole-chieve enfatizzate da Marenzio con la loro ripetizione in strutture contrappuntistiche sono: “bel giardin”, “ rosa ridente”, “l’amo e sospiro”e tutto l’ultimo verso, che è anche quello per numero di battute più esteso. Il motivo parola “S’io miro in bel giardin rosa ridente” è strutturato con l’alternanza delle coppie di voci. Prima le due voci si imitano sulle parole “S’io miro in bel giardin” poi sul seguito del verso procedono omoritmicamente per terze o seste parallele. Qui i vari timbri, dovuti all’alternanza e all’accoppiamento di voci diverse, diventa sinonimo delle variazioni timbriche del colore del fiore. Nella struttura imitativa di tutto il motivo parola si può riconoscere il tentativo del compositore di ricreare simbolicamente l’intreccio dei petali della rosa. Nel sesto verso la notazione musicale diventa il principale veicolo del senso testuale. L’uso di valori lunghi e quindi di note cosiddette bianche serve proprio a rendere visivo e non solo sonoro l’oggetto del discorso. La nota bianca diventa quindi la metafore del bianco avorio, così come la ricca perla viene caratterizzata dal ritmo puntato e dalle note nere. Nel sesto verso si ha un sensibile cambiamento di stile. Qui l’ultimo Marenzio sembra avvicinarsi al linguaggio monteverdiano. Notiamo la coincidenza del ritmo musicale con quello verbale sulle parole “L’amo e sospiro” è la ripetizione in progressione una quarta sopra secondo la figura retorica della Epizeusi. La suspirazio, coincidente con la pausa di batt.30, è ormai diventata nel linguaggio di fine cinquecento un archetipo. Da qui in avanti nel linguaggi musicale la parola sospiro verrà sempre legata ad una pausa. Anche sulle parole “e dico:”, Marenzio si avvicina al linguaggio monteverdiano, con l’utilizzo della noema come gesto retorico per cambiare d’improvviso il tono del discorso, quando il poeta da monologo interiore passa ad una esternazione del suo pensiero. Nell’ultimo verso lo stile ritorna quello imitativo tipico di questa ultima raccolta di madrigali. Qui le 16 ripetizione del testo sono la metafora del pensiero che continuamente ossessione il poeta, cioè il sen’ e il crin’ vago e lucente.
L’artificio tecnico-compositivo in questo madrigale rappresenta il punto d’arrivo del linguaggio musicale cinquecentesco. Ma allo stesso tempo è anche il suo limite espressivo. Lo stesso Marenzio, quando nel settimo verso vuole enfatizzare l’emotività intrinseca di una frase “L’amo e sospiro” và chiaramente verso una semplificazione del linguaggio, che molto si avvicina allo stile monteverdiano. In questo madrigale la fantasia melodia del cigno, un percorso modale sempre in evoluzione, legato ad una costruzione polifonica sempre in continuo cambiamento, sono gli aspetti che donano vivacità e carattere ad una forma e ad un linguaggi musicale che per la sensibilità di fine cinquecento appare ormai sterile.

domenica 26 ottobre 2008

Breve relazione sulle Six Chansons di Paul Hindemith

P.Hindemith - Six Chansons (SATB) testo di R.M.Rilke (1939)
La crescente egemonia nazista, negli anni trenta finì con l’indicare anche nella persona di H. un intellettuale degenerato, nemico del popolo e corruttore della musica tedesca. Nel 37, costretto ad abbandonare l’insegnamento alla Musikhochschule berlinese, si stabilì temporaneamente in Svizzera. Nel 1938 gli fu chiesto di scrivere una composizione per la corale folkloristica “Chanson Valaisanne” di Georges Haenni. H. scelse per questa commissione alcune poesie di Rainer Maria Rilke (1875-1926), nelle quali il poeta tedesco ispirandosi dalla campagna del Vallese, scrisse il suo personale inno alla natura in francese; il suo linguaggio è permeato di atmosfere simbolistiche, in cui la descrizione di animali, cose o stagioni sono in realtà una proiezione di dimensioni e stati d’animo interiori. Questa raccolta, da H. intitolata Six Chansons, fu terminata nel 1939. Di lì a poco, in seguito allo scoppio della seconda guerra mondiale H. lasciò l’Europa per gli Stati Uniti. Risale anche alla fine degli anni trenta la pubblicazione del trattato, iniziato nel 1927, Unterweisung im Tonsatz (Regola del comporre, 2 volumi, 1937-1939) pietra miliare della storia della teoria musicale. In esso viene affermato il concetto di Grundton (suono fondamentale) come cardine generatore di tutta la costruzione melodica, armonica e contrappuntistica. In esso egli tenta una dimostrazione scientifica delle tendenze naturali della tonalità come leggi fisiche e fisiologiche connaturate nell'uomo. Questo trattato fece molto scalpore perché voleva essere, tra l'altro, una contrapposizione polemica alle teorie di A. Schönberg sulla pantonalità (atonalità) e sul metodo dodecafonico, ma non ebbe conseguenze. Proprio nelle Six Chansons possiamo vedere un chiaro esempio del particolare linguaggio stilistico di H. fondato sul concetto di Grundton. Forse fu anche per andare incontro alle esigenze del committente: una formazione corale che oggi potremmo definire d’ispirazione popolare e che si può immaginare fosse di tipo amatoriale, che la scrittura musicale non si fa mai impervia come in altre sue opere, prima fra tutte la Messa (1963). Possiamo dire che le Six Chansons sono un vero trattato di tecnica corale, un raro esempio di composizioni concepite quasi come degli “studi”, ma al tempo stesso veri e propri brani da concerto. Il coro che affronta lo studio di questo caposaldo della letteratura corale del 900, trova un importantissimo percorso didattico, adatto ad affrontare i problemi inerenti l’intonazione degli intervalli melodici ed armonici, l’equilibrio dei settori, le varie possibilità timbriche e dinamiche.

Analisi del madrigale di C. Monteverdi O Mirtillo, Mirtillo, anima mia

O Mirtillo, Mirtillo, anima mia è il secondo brano del Quinto libro di madrigali a 5 voci di Monteverdi pubblicato nel 1605. In questa raccolta confluirono sicuramente composizioni scritte anche prima del 1600, come conferma il trattato musicale dal titolo “L’Artusi, ovvero delle imperfezioni della musica moderna” stampato in quell’anno, nel quale proprio i madrigali di questo libro furono aspramente criticati. Nel testo venne mossa una feroce critica al nuovo modo di comporre musica da parte dei “compositori moderni”. Il Monteverdi non era preso in causa esplicitamente, ma vennero riportati come esempi alcuni “passaggi” tratti da madrigali, nei quali egli riconobbe alcune sue composizioni. L’Artusi accusava alcune trasgressioni alle regole compositive, certe asprezze sonore, e l’uso improprio delle dissonanze e delle settime non preparate. Il teorico bolognese però non comprese che quei passaggi che egli considerava errori oltre ad avere un importanza timbrica contestualizzata al significato della parola, esprimevano una nuova sensibilità armonica che andava sempre più affermandosi, attraverso il trapasso dalla modalità alla tonalità. Alla rottura dell’ideale polifonico ha contribuito anche l’evoluzione della voce più grave, che da voce partecipante alla struttura contrappuntistica, ha cominciato ad assumere funzioni di basso armonico. Il madrigale polifonico cinquecentesco qui cede il passo ad una composizione ibrida dove si ha la tendenza a considerare l’insieme vocale composta da due linee principali: melodia e basso. Per questa via Monteverdi giunse poi all’adozione del basso continuo, altra grande novità del quinto libro. Quest’ultima evoluzione del madrigale concertato aprirà poi la via alle forme nuove della cantata, dell’aria ecc. Queste novità tecnico-compositive vanno a supportare la vera novità stilistica presente in questo quinto libro: lo stile drammatico-rappresentativo, che qui domina dall’inizio alla fine. La scelta dei testi non fa che confermare questa nuova linea. Tutti i madrigali di questa raccolta sono su testi del Guarini, otto sono tratti dalle poesie e undici dal dramma pastorale il “Pastor fido”, una “tragi-commedia” (come la definisce il poeta) in versi sciolti che narra la complicata vicenda dell’amore fra il pastore Mirtillo e Amarilli. Di questi undici poi otto sono organizzati in due cicli, e questo può far credere che tali madrigali “rappresentativi” facessero parte di una vera e propria azione drammatica. Iniziamo l’analisi di questo madrigale illustrando l’articolazione musicale del testo. Essa si fonda sulla segmentazione delle immagini poetico-verbali e sulla loro individuazione musicale mediante la combinazione sempre diversa di impasti timbrici, attraverso l’alternanza delle combinazioni vocali.

O Mirtillo, Mirtillo, anima mia, 11
Se vedessi qui dentro 7
Come sta il cor di questa 7
Che chiami crudelissima Amarilli, 11
so ben che tu di lei 7
quella pietà, che da lei chiedi, avresti. 11

Oh anime in amor troppo infelici! 11
Che giova a te, cor mio, l’esser amato? 11
Che giova a me l’aver sì caro amante? 11

Perché, crudo destino, 7
ne disunisci tu, s’Amor ne strigne? 11
E tu, perché ne strigni, 7
se ne parte il destin, perfido Amore? 11


L’articolazione di questo monologo di Amarilli in versi endecasillabi e settenari sciolti, priva di rime che prestabiliscono una forma, lascia libero il compositore di strutturare musicalmente tali versi seguendo solo la logica delle immagini verbali e dalla tensione poetico-rappresentativa. Macroformalmente il madrigale è suddiviso in tre grandi sezioni caratterizzate da un diverso aspetto psicologico e drammatico. Nella prima parte, che corrisponde ai primi sei versi c’è l’invocazione di Amarilli al suo amato; nei successivi tre versi il discorso diventa interiore, ed in fine nella terza parte Amarilli si rivolge al Destino.
Nella prima parte si possono individuare delle suddivisioni interne. L’invocazione iniziale O Mirtillo… è affidato a tutte e cinque le voci, e comprende le prime 5 misure. In questo primo verso si esprime tutta la tristezza di Amarilli: la melodia del Canto procede subito con una sesta magg. discendente che richiama l’atmosfera del Lamento di Arianna. Retoricamente questo andamento melodico definito planctus, esprime proprio l’inflessione lamentosa della preghiera di un amante. L’accento tonico della parola Mirtillo è enfatizzato dal ritardo della terza nel quinto. Questa invocazione viene subito chiusa su di una cadenza perfetta a Fa, a batt.2. Il seguito del verso è separato dalla figura retorica della suspirazio: una pausa di semiminima in tutte le voci. La diminuzione dei valori rappresenta la concitazione psicologica che sovviene nell’animo di Amarilli al pensiero dell’Amante. Qui la parola anima è connotata dall’andamento ritmico della minima col punto, che gli conferisce un particolare peso espressivo. Sulla parola mia si ritorna ad allentamento dei valori con un altra cadenza perfetta a Sol (Batt.5). Attraverso queste due ravvicinate cadenze si capisce subito che l’impianto modale del madrigale cinquecentesco sia ormai scardinato. Si parte da Sib e si cadenza a Fa, poi in progressione si riparte da Do e si cadenza a Sol. A questa zona contraddistinta da una scrittura in stile declamato, si contrappone la sezione successiva dove il secondo e il terzo verso vengono uniti un un’unica frase musicale, che viene ripetuta con due assetti timbrici differenti, prima da batt.5 a batt.10 con le coppie BT e CQ, poi nelle batt.10-14 con le sole tre voci femminili AQC. Qui si ha uno sviluppo del materiale precedente. Vediamo all’inizio ancora la figura la figura retorica della suspirazio che precede una breve figurazione imitativa per terze col gioco delle coppie fra BT e QC, che ricorda un andamento marenziano. Di particolare rilievo è l’andamento melodico del canto alla batt.7 che fa un ritardo di settima preparato, ma che non risolve, regolarmente discendendo di grado congiunto su una consonanza, ma con un salto di quinta discende su di una consonanza (questo si ripete anche a batt.11). Questo passaggio sicuramente era uno di quelli aspramente criticati dall’Artusi, ancora legato alle vecchie regole contrappuntistiche. Monteverdi invece dimostra di possedere un sensibilità musicale nuova dove la dissonanza si è emancipata dalla sua risoluzione ed ha acquisito un’importanza espressiva che vive di vita propria. La parola cor è contraddistinta dalla sincope, ulteriore sviluppo della minima puntata sulla parola anima, che sta a rappresentare l’aspetto psicologico dell’animo di Amarilli che ha il cuore in pena, in affanno. In questa zona è caratterizzata moralmente dalla sequenza di triadi maggiori di FA MI RE SOL FA alle batt. 8 e 9, che le conferiscono un particolare colore armonico-timbrico. Il quarto verso a batt.14 inizia a tre voci BAC poi le voci mancanti TQ entrano successivamente ripetendo così il verso una seconda volta fino a batt.29. Questa zona è contraddistinta da un sostanziale rallentamento dei valori, e da una scrittura imitativa. Infatti il motivo parola “Che chiami crudelissima Amarilli” esposto la prima volta al basso che procede omoritmicamente con A e C è poi ripetuto per intero (tranne l’ultima nota) dal Q a batt.18, dal T a batt.20, dall’A a batt.21 e ancora dal S a batt.22. Queste ultime entrate ravvicinate conferiscono una grande forza espressiva alle parole “Che chiami” e vanno così a rappresentare il grande peso che esse avevano nel cuore dell’innamorata Amarilli. Queste entrate in imitazione vanno poi a creare una concatenazione di ritardi e appoggiature (il ritardo è preparato e la risoluzione non è sillabata, mentre nell’appoggiatura si ha il cambio di sillaba nella risoluzione), che creano dissonanze che servono a caratterizzare la parola crudelissima. A batt.16 c’è il ritardo 2-3 al basso. Nelle batt.17 e 18 abbiamo due ritardi di settima, prima con la settima al basso che fa un ritardo 2-3, poi al contralto. A batt.20 abbiamo un doppio ritardo di 4° e 7° sulla 3° e 6°, il culmine espressivo è a batt.23 e seguenti con il doppio ritardo 7° e 9° con la nona a distanza di seconda col basso, poi il ritardo della 4° e della 6° alla batt.24. A batt.25 abbiamo ancora un doppio ritardo: al T c’è il ritardo di 9° a distanza di seconda dal basso e al C il ritardo della 3° reso ancora più incisivo dalla presenza della terza al contralto. Alle batt.26 e 27 al C c’è il ritardo di 7° quindi sulla cadenza a Sol a batt.28 c’è il ritardo canonico 4-3 al Q. Questa lunga serie di dissonanze sempre più dure serve a Monteverdi per realizzare drammaticamente l’animo di Amarilli che ha ormai abbandonato la tristezza iniziale, ed esprime sentimenti di dolore e di rabbia verso l’ingrato Mirtillo. Dopo questo sfogo di rabbia i toni ritornano pacati nel quinto e nel sesto verso, che sono anch’essi uniti in unica arcata musicale da batt.29 a batt.35, affidata a sole tre voci TQC. Questa parte è caratterizzata da triadi perfette, che appunto in forte contrasto con la zona precedente, espressivamente rappresentano la riacquisita calma. Particolare rilievo la parola pietà connotata dal da una minima col punto. In questa parte modalmente si va dal Sol minore ad un La maggiore in cadenza sospesa.
Veniamo ora alla seconda zona macroformale. Il settimo e l’ottavo verso vengono affidati allo stesso numero di voci BAQC alle batt.35-46. Nel nono verso batt.46-51 si cambia ancora impasto timbrico utilizzando le voci TAQC. A batt.36-37 l’esclamazione “Oh anime …” del settimo verso è reso espressivamente e musicalmente attraverso un breve inciso melodico ascendente, che è una chiara evoluzione del motivo parola di batt.5-6. Questo è chiaramente l’amplificazione dell’esclamazione del parlata. Al motivo iniziale del C rispondono per terze B e A poi ancora il C ripete dalla nota di arrivo RE la medesima scala ascendente andando così a coprire un intervallo di settima. Questa nota SOL è anche il culmine più acuto dell’intero brano. Questo gioco imitativo si svolge su di un pedale di Re tenuto dal contralto. Il verso prosegue con un andamento omoritmico che conduce a una cadenza imperfetta a RE dove la sensibile al C non risolve ma scende di quinta per caratterizzare la parola infelici.  Nell’ottavo verso troviamo in sintesi sia il materiale dell’inizio del verso precedente al C che un’evoluzione del motivo parola “Che chiami crudelissima Amarilli” nella voce del contralto. Il verso si chiude a batt.45 sulla cadenza modale a LA con una fermata sul valore di semibreve sulla sillaba tonica della parola amato. Questo è poi simmetricamente ripetuto nel verso seguente a batt.50 sulla parola amante, però con una cadenza perfetta a RE. In questo modo sono così correlati musicalmente i due versi anche letteralmente corrispondenti.
L’ultima macro-sezione inizia a batt.51. Il decimo e l’undicesimo verso sono uniti in un’unica frase musicale affidata alle voci BAQC, e anche gli ultimi due versi hanno questa struttura, ma vengono ripetuti due volte, la prima con uno svuotamento timbrico ottenuto con le tre voci TQC, la seconda con l’utilizzo di tutte e cinque.
Le parole crudo destino del decimo verso sono sottolineate musicalmente da una 4° e 6° di volta. La struttura del verso è poi resa speculare dalla 4 e 6 di batt.56.Nella ripetizione degli ultimi due versi, uniti in un’unica frase musicale, si nota al contralto l’elemento tematico di batt.41. Da notare il particolare movimento melodico di questa voce a batt.63-64 dove la settima non risolve ma sale. Questo è un altro di quei passaggi che sicuramente l’Artusi considerava errato. 
Dallo studio delle combinazioni timbriche utilizzate in questo brano si nota subito che il Cantus non tace mai, e porta praticamente sempre la melodia, mentre le altre voci svolgono un compito per lo più armonico. Questo è avvalorato dal fatto che i procedimenti imitativi sono ridotti al minimo e si ha per tutto il brano un costante andamento omoritmico delle parti. Si tratta quindi di un madrigale in stile declamato, la cui melodia risulta per molti aspetti uguale al declamato operistico del recitar-cantando. L’impianto modale appare alquanto scardinato: il madrigale inizia sul Sib, ma finisce sul Re, mentre al suo interno sembra affermarsi la cadenza a Sol, tra l’altro queste tre polarità vanno ad affermare la triade di Sol min. Si capisce allora che ormai la modalità come era concepita nel secolo precedente ha definitivamente lasciato spazio ad una nuova sensibilità, che si affermerà poi nei modi maggiore e minore. 


domenica 12 ottobre 2008

Laboratorio permanente per direttori di Coro IV edizione

Cagliari
30 ottobre - 02 novembre

Anche quest'anno l'associazione corale  Studium Canticum di Cagliari ripropone il corso per direttori tenuto dai maestri Pierpaolo Scattolin e Cristian Gentilini.

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per informazioni vedi anche:

J.S. Bach - Magnificat

Si legge nel Vangelo di Luca (1, 39-56) che la Vergine Maria, recatasi a far visita alla cugina Elisabetta dopo l'Annunciazione, sentendosi salutare da questa con le parole “benedetta fra le donne”, rispose con una invocazione di riconoscenza a Dio che inizia con le parole: “Magnificat anima mea Dominum”, “L'anima mia glorifica il Signore”. In questo cantico Maria, mentre dichiara con umiltà i doni ricevuti, esalta la storia prodigiosa d'Israele. In esso risuonano gli echi di quello pronunciato da Anna, madre di Samuele (1 Sam., 2, 1-10), e di parecchi salmi usati dagli israeliti per manifestare i loro sentimenti religiosi. Nella liturgia cattolica occidentale il Magnificat si canta, stando in piedi, ai vespri, tutti i giorni, anche il Sabato Santo e all'ufficio dei morti, ed è sempre accompagnato da un'antifona propria alla festa celebrata. Nei riti bizantini e nel rito antiocheno è cantato al mattutino. Il Magnificat viene solitamente eseguito a cori alterni, su formule melodiche assai simili ai toni salmodici, più o meno ornate secondo la solennità della festa: per ognuno degli otto modi gregoriani esiste una specifica intonazione. Nella musica polifonica dal XV al XVIII sec., il Magnificat fu trattato nello stile del mottetto: tra i primi compositori di Magnificat polifonici figurano Dunstable, Dufay, Binchois e Obrecht. Mentre Binchois musicò l'intero testo, Obrecht intonò solo i versetti pari, lasciando quelli dispari alla melodia gregoriana. Questo uso, analogo a quello praticato per l'inno, fu ampiamente seguito dai compositori successivi. Nel XVI sec. composero Magnificat Palestrina, L. Senfl, O. di Lasso, C. de Morales, T. de Victoria; in seguito, C. Monteverdi, H. Schütz, J. S. Bach, Mozart, Mendelssohn. A partire dal XVI sec. invalse l'uso di sostituire i versetti pari del Magnificat con brevi brani organistici basati sul corrispondente cantus firmus gregoriano: composizioni del genere sono contenute nell'Intavolatura di G. Cavazzoni (1543), nelle Obras de música di A. de Cabezón (1578), nelle 94 Magnificat Fugae di J. Pachelbel, ecc. Il Magnificat, nella traduzione inglese, fu introdotto anche nell'ufficio serale (Evening Prayer) della liturgia anglicana e come tale fu musicato dai maggiori compositori inglesi del Seicento, tra cui W. Byrd, O. Gibbons, H. Purcell.

Il testo latino è composto di 11 versetti (Luca 1, 46-55)
Magnificat anima mea Dominum.
Et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo.
Quia respexit humilitatem ancillae suae; 
ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes.
Quia fecit mihi magna, qui potens est, et sanctum nomen ejus.
Et misericordia a progenie in progenies timentibus eum.
Fecit potentiam in brachio suo, dispersit superbos mente cordis sui.
Deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles.
Esurientes Implevit bonis, et divites dimisit inanes.
Suscepit Israel Puerum suum, recordatus misericordiae suae.
Sicut locutus est ad patres nostros, Anbraham et ejus in secula.
Gloria Patri, gloria Filio, gloria et Spiritua sancto! 
Sicut era in principio, et nunc, et semper, et in secula seculorum, Amen.

Traduzione
L’anima mia glorifica il Signore
E il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore.
Perché ho guardato l’umiltà della sua serva; 
d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome.
Di generazione i generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore.
Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili.
Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia.
Come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre.
Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo! 
Com’era nel principio, e ora e sempre nei secoli dei secoli, Amen.

Il testo del Magnificat era stato accolto con favore nella liturgia luterana. Legato strettamente all’Ufficio dei Vespri, il Canticum Mariae fu conservato, ma conobbe due distinte versioni: una in tedesco “Meine Seele erhebet den Herrn”, intonata sul IX tono salmodico (il tonus peregrinus), nel corso dei Vespri del sabato e della domenica, e una in latino che gli ordinamenti liturgici di Lipsia consentivano di intonare in stile figurato ma esclusivamente nelle tre feriae delle feste principali (Natale, Pasqua, e Pentecoste). Bach musicò sicuramente più volte questo testo, ma di quella produzione non rimane che un’unica opera in due versioni (BWV 243a e BWV 243) giunte a noi in due diverse partiture autografe (il Rust sostiene che fino a pochi anni fa esisteva ancora l’autografo di un altro Magnificat per soprano solo e orchestra, oggi purtroppo perduto). Opera non bachiana risulta invece il cosiddetto Piccolo Magnificat BWV Anh.21 che contrariamente alla tesi sostenuta dal Paccagnella , è oggi riconosciuta come opera di Telemann.
Il Magnificat della prima versione risale, secondo la testimonianza dello Spitta al 1723 e presumibilmente venne eseguito dopo il sermone del Natale di quell’anno; è composto nella tonalità di Mib magg., adatta all’impiego degli ottoni. Nel medioevo si usava in Germania rappresentare la nascita di Cristo durante i Vespri di Natale, e quest’usanza si mantenne a Lipsia fino al XVIII secolo, benché il consiglio avesse tentato in ogni modo di abolirla. La prova migliore di questa sopravvivenza è proprio costituita dalla prima partitura del Magnificat, che comprende ancora i canti che dovevano accompagnare la sacra rappresentazione del Natale chiamata: “Kindelwiegen”, la ninna nanna del bambino. Questi canti, due in lingua tedesca e due in latino sono: il corale “Von Himmel hoch, da komm ich her”, sotto forma di piccolo mottetto su cantus firmus a quattro voci a cappella, dopo il “Et exultavit”; il mottetto a quattro voci e continuo “Freht euch end jubiliert” dopo il “Quia fecit”; il mottetto a cinque voci con violino obbligato, strumenti e continuo “Gloria in excelsis Deo” posto dopo il “Fecit potentiam”; ed il duo per soprano, basso e continuo “Virga Jesse floruit”, una strofa di un inno natalizio medioevale, dopo l’“Esurientes implevit”. Questi canti, anziché essere eseguiti dallo stesso coro che cantava il Magnificat, erano presumibilmente eseguiti da alcuni coristi dalla tribuna del piccolo organo, collocato nella parte opposta della chiesa, proprio di fronte all’organo grande. Perciò il Magnificat, nella sua partitura originale, richiedeva due organi e due cori uno di fronte all’altro, allo stesso modo della Passione secondo Matteo. 
L’edizione a stampa del Magnificat che Pölchau fece presso Simrock nel 1811, mostra che egli non conosceva la seconda versione, riveduta e trasportata in Re magg. risalente al periodo 1728-1731. Nell'edizione completa delle composizioni bachiane troviamo invece solo questa seconda versione (senza l’aggiunta delle quattro interpolazioni natalizie); i redattori evidentemente pensarono che la versione in Re maggiore avesse sostituito la precedente. Questa concezione, tipica del diciannovesimo secolo, ha però fatto trascurare quasi completamente la versione originale. L’organico orchestrale del Magnificat in Re maggiore prevede 3 Trombe in Re, Timpani, 2 Flauti traversi, 2 Oboi e 2 Oboi d’amore (strumento creato intorno al 1720 in Germania, tagliato una terza minore sotto l’oboe usuale, dotato di una campana piriforme per addolcire il suono), 2 Violini, Viola, 5 Solisti (SSATB), e Coro a 5 parti (SSATB). Il continuo prevede l’organo associato, a violoncelli, violone e bassoni. Violone era il nome dato al contrabbasso della viola da gamba, alto circa 125 cm - come indica il Praetorius -, aveva cinque corde accordate per quarte. Il bassone era invece un fagotto basso.
La domanda che possiamo porci è se Bach pensò le modifiche apportate alla seconda versione come "miglioramenti" o se queste furono in alcuni casi rese necessarie da esigenze pratiche legate alla nuova esecuzione. Oltre al cambiamento dell’impianto tonale da Mib a Re maggiore, la differenza più evidente tra le due versioni è la mancanza nella seconda delle quattro interpolazioni natalizie. Wilhelm Rust commentò a riguardo: «sembrerebbe che queste interpolazioni non dovessero soddisfare Bach visto che non le incluse nella successiva revisione». La motivazione più plausibile di questo cambiamento è però quella individuata dallo Spitta, secondo il quale, la seconda esecuzione avrebbe avuto luogo non per Natale, ma per Pasqua o Pentecoste nelle quali era consueto eseguire il Magnificat in latino. In tali occasione i brani natalizi sarebbero stati naturalmente fuori luogo.
Per quanto riguarda la trasposizione a Mib è difficile credere che Bach abbia scelto il nuovo impianto tonale nella speranza di migliorare il lavoro; è invece molto più probabile trovare la causa di questa modifica in alcune esigenze pratiche. Comparando la partitura del Magnificat con quella di altri lavori bachiani si comprende che la ragione non poteva essere l’eccessiva altezza di alcune parti, visto che neanche l'introduzione dei flauti nei tutti avrebbe reso necessario la trasposizione; è anche relativamente noto che Bach non era propenso a questo tipo di cambiamenti, ed è anche molto improbabile che la scelta del Re magg. sia dovuta a ragioni estetiche. Quello che è inconsueto, comunque, rimane l’originale uso delle trombe in Mib, che Bach non ha utilizzato in nessun altro suo lavoro, in quanto erano difficilmente reperibili al suo tempo. Questo problema potrebbe essere allora una reale causa della trasposizione tonale. Potrebbe anche essere che Bach non fece di fatto uso delle trombe in Mib alla prima esecuzione. Allora è possibile pensare che gli oboi (sostituiti dai flauti nell’aria "Esurientes implevit"), fossero intonati secondo il cosiddetto “chamber-pitch basso” che era un semitono sotto al normale "chamber-pitch alto." Se così fosse allora l'assegnazione delle chiavi potrebbe essere ipotizzata come segue: le trombe erano in Re (non accertabile dalla partitura, come sempre in Do); gli strumenti a fiato di legno in Mib con il chamber-pitch basso suonavano in Re; i violini erano accordati un semitono sotto gli strumenti a fiato di legno, quindi suonando un Mib, usciva un Re; l'organo, era accordato secondo il "choir-pitch", e suonando un Do usciva un Re. Se questo è corretto, anche la prima versione suonò come se fosse stata scritta in Re maggiore. Sfortunatamente le parti, e in particolare quella dell'organo, dalla cui chiave si sarebbe potuta stabilire la tonalità, non si sono conservate. Ma sono giunte fino a noi altre manipolazioni simili risalenti al primo periodo di Bach a Lipsia. Possiamo riferirci, per esempio come ci informa Spitta all’esecuzione della Cantata, "Hochst erwunschtes Freudenfest" (composta per l’inaugurazione dell'organo nuovo a Stormthal), o alla Cantata n.23, "Du wahrer Gott und Davids Sohn," anche se è un esempio più lontano. Qui l'accordatura più bassa era dovuta non all'uso di strumenti a fiato di legno in chamber-pitch basso ma alla trascrizione delle parti dell'oboe per l’oboe d'amore, ma il processo era lo stesso. E impossibile stabilire se il Magnificat nella prima esecuzione suonò realmente in Re o in Mib, e ciò non è di importanza decisiva in ogni modo. Si può presumere comunque, che le motivazioni del trasferimento a Re magg. fossero di fatto sorte da qualche necessità pratica, e queste incitarono poi Bach a rivedere per intero il lavoro. Vediamo ora di analizzare alcune delle più importanti variazioni che Bach apportò alla prima versione del Magnificat. Nella versione originale dell'aria "Esurientes implevit" Bach prescrive due "flauti," scrivendolo in francese nella chiave del violino. Questi sono chiaramente parti per flauto diritto. L’estensione richiesta (Fa1-Sol3) è quella del flauto diritto soprano in fa che era il flauto più utilizzato al tempo di Bach. Queste parti erano suonate dagli oboisti. La trasposizione ha imposto un cambio di strumento sia per la nuova estensione sia per la nuova chiave (mi invece di Fa): i due flauti sono stati sostituiti perciò da due flauti traversi. Il cambiamento più radicale nella strumentazione è l’aggiunta di due flauti nei tutti. Queste due nuove parti sono un esempio della grande capacità bachiana di aggiungere nuove parti a un movimento precedentemente composto. Ha fatto uso dei flauti come segue: a) duplicando le parti dell’oboe o del violino; b) dandogli parti addizionali o note sostenute; c) riprendono parti che precedentemente erano assegnate ad altri strumenti 
Questa aggiunta dei flauti arricchisce il lavoro senza alterarne la struttura formale, e quindi è stata fatta per pure ragioni estetiche, in quanto non era necessaria. La parte dell'assolo nell'aria "Quia respexit" era suonata originalmente da un oboe, ma siccome la trasposizione la rese troppo bassa per questo strumento fu assegnata successivamente all'oboe d'amore. Ci si può chiedere, comunque, se l’accostamento di un suono profondo, come quello al quale l'oboe d'amore è forzato, all'umore brillante introdotto dalle parole "ecce enim ex hoc" sia tanto di successo quanto la melodia dell'oboe della prima versione, benché da una punto di vista formale la versione riveduta sia migliore. Nel terzetto seguente "Suscepit Israele," Bach introduce un cantus firmus sul 9th tono Salmistico, sul quale il Magnificat era normalmente cantato a Lipsia. La melodia ora assegnata ai due oboi era stata data originalmente a una tromba in Mib. In ogni caso alla prima esecuzione questa scelta non deve essere stata soddisfacente visto che l’assegnazione di questa melodia a due oboi è un procedimento insolito per Bach: in tutti i casi simili quando ha rivisto la strumentazione di un cantus firmus ha sempre fortificato la linea melodica. Per esempio nella Cantata n.185, dove in una versione più tarda l'oboe è stato sostituito da una tromba a coulisse. Si può presumere perciò che Bach trovandosi in un caso simile avrebbe tenuto la tromba in questa parte quando rivisitò il lavoro.
Quando Spitta, scrivendo dell'introduzione del corale nel terzetto, dice: «Bach introduce un corale quando vuole esprimere un sentimento vago di mistero. Il suono del corale è pieno di presagio, triste ed oscuro ed appare strano» cade chiaramente in errore, in quanto non era sicuramente nelle intenzioni di Bach fare apparire questa melodia come una evocazione, un bisbiglio romantico. Al contrario, il corale doveva essere un chiaro simbolo, e possedeva la sua forza solo se la sua melodia era riconoscibile. Se qualche volta risulta difficile per noi sentire la melodia del corale in alcuni dei movimenti di Bach, è perché non abbiamo sufficiente familiarità con questi canti e la loro appropriatezza stagionale; i suoi contemporanei di solito riconoscevano la melodia piuttosto chiaramente, e avranno velocemente individuato l’intonazione del IX Salmo che avevano sentito ogni giorno durante il Vespro, una melodia che in nessun modo suggerisce strani presagi. È solo agli orecchi di generazioni più tarde che ha questa può essere suonata "strano." I cambiamenti melodici, ritmici ed armonici sono tutti minimi, ma piuttosto importanti. Di solito sono tentativi per migliorare la versione originale. La parte dell’oboe nell'aria "Quia respexit" originalmente cominciava con andamento ritmico di semicroma puntata e biscroma e proseguiva, da bat.2 in poi, uniformemente con semicrome. Questa notazione è un modo per indicare le ineguaglianze ritmiche, che secondo la prassi esecutiva dell’epoca barocca i solisti adottavano normalmente, quando la melodia era scritta in note uguali. L’aver messo il punto nella notazione è niente meno che un'approssimazione all'usanza comune in quel periodo di accentare e sostenere la 1°, 3° e 5° nota piuttosto più che la 2°, 4° e 6°. E’ solo nella versione successiva in re maggiore, comunque, che Bach ha stretto il ritmo della terza di semiminime e tutti i passaggi corrispondenti. Il coro "Omnses generationes" non solo ha subito correzioni armoniche, ma in due punti il ritmo è stato animato per dare alle voci di soprano e tenore (ed agli strumenti dell'accompagnamento, incluso la viola) un accento, dopo la pausa di croma, invece che sul primo battito, come era nella versione originale. La parte del contralto alle bat.33-34 di "Esurintes implevit" ha subito un cambio particolarmente delizioso. 
Nella versione riveduta ha anche inserito delle pause come interruzioni del flusso ritmico (come all'inizio di bat.34 o la mancanza della nota finale nella parte del flauto alla bat.43). Il cambio di chiave ha reso necessario una modifica più decisiva della parte del violino nel ritornello dell'aria "Deposuit potentes”. Questo è un esempio di un tipo di melodia che deriva dal trasferimento in una singola parte di un passaggio originalmente concepito per due parti fugate. Quando l'aria è stata trasposta a Fa diesis minore l'inizio è diventato troppo basso per il violino, così la prima battuta e tutti i passaggi corrispondenti sono stati elevati di un'ottava. Questa soluzione è felice e conserva la struttura caratteristica del tipo di melodia, e questo modulo del tema è contenuto già nella parte del tenore della versione originale, che doveva cominciare nell'ottava alta, più adatta alla voce.

Analizziamo ora la struttura del lavoro, che risulta così organizzato: 
1) Magnificat (Coro, orchestra e continuo)
2) Et exultavit (Soprano 2 solo, violini, viola)
3) Quia respexit (Soprano 1 solo, oboe d’amore)
4) Omnes generationes (Coro e orchestra)
5) Quia fecit (Basso solo e continuo)
6) Et misericordia (Contralto e tenore soli, flauti, violini e viola)
7) Fecit potentiam (Coro e orchestra)
8) Deposuit potentes (Tenore solo e violini)
9) Esurientes implevit (Contralto solo, flauti e continuo)
10) Suscepit Israel (Soprano 1, 2 e alto soli, oboi e continuo)
11) Sicut locutus (Coro)
12) Gloria Patri (Coro e orchestra)

Ogni singolo pezzo, nonostante la brevità, ha un suo carattere ben definito. Esplicita è la rinuncia a utilizzare le forme più articolate dell’aria, a cominciare da quella col “da capo”. Il primo brano ha un impeto travolgente di splendore e ricchezza, il coro a 5 voci esulta “Magnificat anima mea Dominum” sorretto dalla piena orchestra a cui danno smagliante e festoso colore le trombe e i timpani. Un potente effetto produce, più avanti, l’aria per soprano solista “Quia respexit”, quando sulle parole “omnes generationes” tutto il coro interrompe la voce sola, all’improvviso. Una bellezza trascendente ha il trio per due soprani e contralto “Suscepit Israel”, dove i due oboi intonano all’unisono, nello stile di un cantus firmus la venerabile melodia del Magnificat. Al successivo intervento corale “Sicut locutus est patres nostros”, il compositore conferisce un carattere di mottetto in stile antico, scrivendo una fuga vocale, senza accompagnamento d’orchestra, per accentuare, anche nel linguaggio musicale lo stretto legame con il passato. Dopo questo pezzo austero, il ritorno dell’orchestra nel “Gloria patri” finale appare tanto più trionfale. Per due volte le voci s’innalzano in un arco poderoso per rendere gloria al Padre e al Figlio. Sulle parole “et Spiritui Sancto” la linea melodica viene invertita per simboleggiare la discesa dello Spirito Santo. Qui, l’entrata delle trombe conduce l’opera al suo culmine, proclamando trionfalmente: “Magnificat anima mea Dominum”, e questa stupenda ascesa di sonorità si conclude con la ripresa del tema iniziale del Magnificat alle parole “sicut erat in principio, et nunc, et semper, et in secula seculorum, Amen”. 
Il Magnificat è una delle composizioni più compatte e suggestive nell’ambito delle opere sacre bachiane, permeata di gioia e di esultanza, da cui si irraggia lo stesso sano e saldo ottimismo che ha trovato irresistibile espressione nei concerti Brandeburghesi. È stupefacente per la classica e serena simmetria: ciascuno dei 12 pezzi di cui è costituito è di breve durata, ed è collegato al successivo in un meraviglioso avvicendarsi di luci e colori. «I brevi pezzi» afferma il musicologo Karl Geiringer , «che durano in media tre minuti ciascuno, sono chiaramente riuniti in tre gruppi, ciascuno dei quali comincia con un aria e finisce con un coro. L’intera opera è maestosamente inquadrata tra il possente coro iniziale del Magnificat e il Gloria conclusivo che, sulle parole “Sicut erat in principio…”, riprende la melodia del primo coro». Spitta ha invece diviso l’intera opera in cinque sezioni, ciascuna delle quali è conclusa da una delle quattro interpolazioni natalizie eccetto l’ultima che è conclusa dalla dossologia . Friedrich Smend lo divide in tre sezioni incorniciate da due cori. La sezione 1 va da "Et exaltavit” a "Omnes generationes"; la sezione 2 da "Quia fecit" a "Fecit potentiam"; la sezione 3 da "Deposuit" a "Sicut est del locutus" e vede le prime due sezioni uguali in lunghezza ("Stollen"), seguite da una terza conclusiva sezione ("Abgesang") come nelle canzoni dei Mastersingers e Minnesingers. Martin Kobelt opera con concetti presi in prestito dal dramma, come esposizione, tessitura della trama ed epilogo. Ma è ovvio che un'analisi specifica della costruzione musicale è impossibile utilizzando tali idee. Hans Stephan che ha investigato le modulazioni del Magnificat introduce uno schema secondo il quale l’opera ha una costruzione assolutamente simmetrica. I problemi della sua interpretazione sono che egli, non solo considera tonalità parallele La-Fa# minore o Sol-Re, ma anche Mi magg. e Fa# minore (che Kobelt chiama "il contrasto più forte immaginabile"), inoltre i due movimenti in Fa# minore "Omnes generationes" e "Deposuit" non sono collegati al tutto. L'interpretazione della struttura formale del lavoro proposta da Alfred Durr invece è basata, primo di tutto, sull'identità tematica che dà la forma di un arco all’intero lavoro. Inoltre in questa analisi il coro "Omnes generationes" non solo continua il testo dell'aria "Quia respexit," ma anche nel modulo musicale non è considerato un movimento singolo, ma un'aria con coro finale. Bach ha perciò assegnato a ciascuno verso del testo un movimento musicale. Ciascuno dei dieci versi (Luca 46-55) è quindi separato dagli altri, e la dossologia è una forma addizionata alla fine. Separatamente dai cori che servono da cornice alle arie, c'è un singolo pezzo centrale, per tutti, il coro "Fecit potentiam", in contrasto con gli altri cori, che sono basati sul principio del concerto, questo coro centrale è una grande fuga. Le parti di collegamento sono formate principalmente da arie, con una piccola eccezione. Davanti alla dossologia c'è un coro "Sicut locutus est " che non è riferito ad alcuna delle arie. Il brano corrispondente all'inizio del lavoro è l'aria "Et exultavit" che non appartiene al complesso di arie ma è imparentata con il coro iniziale sia grammaticamente che per la tonalità. Bach ha costruito un'aria in questo movimento e non un coro probabilmente perché ha voluto compensare il coro finale dell'aria "Quia respexit" che altrimenti avrebbe dato troppa preponderanza ai cori nella prima metà del lavoro.
La struttura del Magnificat può essere descritta come segue: incorniciati da un movimento introduttivo ed uno di chiusura e separati da un coro centrale ci sono due gruppi di tre arie, con quella di mezzo in tono maggiore, e le due ai lati in minore, e l’ultima delle tre introduce più di una voce. Le interpolazioni natalizie sono inserite in modo da mettere in luce i movimenti importanti: il coro centrale; l'aria mediana in ciascun gruppo di tre; i due movimenti d'apertura. Il primo gruppo di arie porta alla sottodominante di "Fecit poetentiam" (Sol magg.); il secondo gruppo nella tonica di "Sicut locutus est" (Re magg.). Le relazioni tonali della la prima sequenza di arie ricorrono esattamente nelle arie del secondo gruppo. Le tonalità del primo gruppo (Si minore; La maggiore; Mi minore) sono in relazione con la tonica (Re magg.) precisamente come quelli del secondo gruppo (Fa# minore; Mi magg.; Si minore) sono in relazione con la dominante (La maggiore). Solo per il Fa# minore del coro "Omnes generationes" non c’è nessuna tonalità corrispondente (o movimento) nella seconda parte. La struttura del Magnificat non è unica nell’opera bachiana. Può essere ritrovata in alcune cantate giovanili: "Aus der Tiefe" n.131 e "Gottes Zeit" n.106, probabilmente composte nel 1707. Entrambe hanno questa struttura di base: un coro d’apertura ed uno finale; un coro centrale affiancato da alcuni movimenti per solisti. È solo intorno l'anno 1723 comunque che Bach fece un grande uso di tale modulo rendendo la simmetria ancora più esplicita con la citazione della musica d'apertura al termine Della composizione. Nel Magnificat egli riprende la coda del primo coro nel coro finale "Sicut erat in principio"; nel mottetto "Jesu meine Freude" l'apertura e la chiusura dei movimenti sono le stesse; nel Passione secondo Giovanni vengono ripetuti i cori turba modificando il testo. Negli anni successivi quasi mai raggiunse tale ovvietà nella simmetria di nessun altro lavoro (sebbene la seconda cantata dell'Oratorio di Natale è costruita su linee simili). Il modulo è assente nella Passione secondo Matteo e anche nell’Offerta Musicale dove Bach dimostra di non essere più interessato a queste strutture simmetriche.

giovedì 9 ottobre 2008

C. Monteverdi - Analisi del madrigale Cor mio, mentre vi miro

Cor mio mentre vi miro è il secondo madrigale del IV libro di madrigali a 5 voci che Monteverdi pubblicò nel 1603. Nelle composizioni di questa raccolta inizia ad intravedersi la cosiddetta “seconda pratica”, che fu il perno attorno al quale ruotarono le tante polemiche fra il Monteverdi e l’accademico bolognese G.M.Artusi. In questo libro infatti lo stile compositivo monteverdiano subisce un cambiamento e si assiste al trapasso dal puro linguaggio rinascimentale a quello del primo barocco. In particolare in questo madrigale l’ideale polifonico cinquecentesco, per il quale ogni voce è per importanza pari alle altre, cede il passo, in alcune zone, ad una composizione ibrida, dove si ha la tendenza a considerare l’insieme vocale composto da due linee principali: melodia e basso. Questa evoluzione porterà la voce più grave, verso la funzione del basso continuo, e la voce più acuta verso il melos proprio del recitarcantanto. 
Iniziamo l’analisi di questo madrigale illustrando l’articolazione musicale del testo, tratto dalle Rime di G.B. Guarini:

Cor mio, mentre vi miro, A7
visibilmente mi trasformo in voi, B11
e trasformato poi, B7
in un solo sospir l’anima spiro. A11
O bellezza mortale, C7
O bellezza vitale, C7
poiché sì tosto un core D7
per te rinasce, e per te nato more. D11

Il testo, concepito come un monologo interiore del poeta rivolto alla donna amata, è concettualmente diviso in due sezioni: una prima parte formata da una quartina di versi nei quali è espressa la sua sofferenza; ed una seconda sezione, corrispondente ai secondi quattro versi, dove egli invoca la bellezza dell’amata. Così anche Monteverdi struttura musicalmente, seguendo la struttura delle rime, il madrigale in due macrosezioni: bat.1-24, e bat-25-49. Queste sono poi articolate in motivi parola non sempre corrispondenti al singolo verso: infatti l’enjambement fra il settimo e l’ottavo verso è attuato anche musicalmente con l’utilizzo di un motivo parola che non coincide con il settimo verso, ma comprende la prima parte dell’ultimo.
Veniamo ora all’analisi dettagliata dei vari episodi.
Il primo verso “Cor mio, mentre vi miro” possiede quelle caratteristiche musicali che, come detto prima, si riferiscono alla così detta “seconda pratica”. Qui la linea melodica del Canto, accompagnata per terze parallele dall’Alto, si contrappone alla linea del basso, che porta sempre allo stato fondamentale le armonie. In questo inizio si riconosce il prototipo dello stile della melodia accompagnata dal basso continuo. La pregnanza melodica di tale linea è confermata a bat.4 dal colore dall’appoggiatura mi-re che entra nell’unisono con l’alto e poi esce per salto di terza. Questo andamento è utilizzato al solo fine espressivo, come abbellimento della cadenza, che lascia poi semplice la triade di Re in secondo rivolto che precede la cadenza sospesa sulla repercussio. L’impianto modale di questo primo motivo parola è sul protus a Re, anche se inizialmente il Fa# dell’Alto gli conferisce una certa ambiguità tonale, che può infatti apparire come un passaggio dominante-tonica. Questa alterazione viene però alla terza battuta contrapposta, secondo il tipico linguaggio modale, dal Fa naturale che chiarifica l’assetto modale. Cifra caratteristica di questo primo motivo è il semitono diatonico La-Sib / Fa#-Sol nelle linee del Canto e dell’Alto. Questo, che è una variante della figura retorica del planctus, viene usato per dare alla melodia l’idea del lamento e della sofferenza. Il movimento di semitono, associato a tale figura retorica come espressione di un lamento ha un precedente illustre nel motivo parola iniziale del mottetto “Super fulmina Babilonis” di Palestrina. In questa composizione è il semitono diatonico discendente a conferisce alla melodia l’idea del lamento del popolo ebraico. Questa tecnica è ormai a inizio 600 codificata in una stilema ben riconoscibile, svincolato dal contesto sacro o profano. Identico stilema è infatti utilizzato dallo stesso Monteverdi anche nell’incipit del madrigale “Il lamento di Arianna” del sesto libro. Questo semitono diatonico, diventa poi per questo madrigale un motivo ricorrente ed un elemento di sviluppo del materiale. Dal primo verso condotto a tre voci, con l’uso di una timbrica rarefatta, ottenuta con l’assenza delle voci centrali, si passa d’improvviso a bat.6 all’utilizzo di tutte e cinque le voci. Tale brusco cambiamento, sonoro per volume e densità, e visivo sulla partitura serve a rappresentare musicalmente la trasformazione che subisce il poeta. Questo secondo motivo-parola, contrasta visibilmente, come anche recita il testo, con la partenza a valori lenti del primo verso, anche se solo per la diminuzione ritmica. Il ribattuto, ed il successivo salto di quinta discendente nel tenore, basso e canto, sono uno sviluppo della linea iniziale del basso. Da questa partenza con tre entrate imitative ravvicinate si ritorna gradualmente a valori lenti verso la cadenza conclusiva di questo verso. Le battute 8, 9 e 10 formalmente sono un ampliamento di bat. 4, qui le note di passaggio nell’alto e nel quinto, costituiscono la figura retorica del pleonasmo che va ad arricchire e ad ampliare il movimento cadenzale al tono di La. Questa cadenza perfetta, sicuramente più conclusiva di quella precedente a bat.5, fa si che i primi due versi vengano uniti in un’unica frase, che procede con un esordio a valori lenti, una corpo centrale (bat.6, 7) di sviluppo e concitazione ritmica, ed un graduale ritorno a valori lenti come chiusura. La modulazione dal Sol min a La magg. sottolinea l’idea dell’avvenuta trasformazione.
Il terzo verso “e trasformato poi” di sole due battute, è separato da una pausa, identificata con la figura retorica della suspirazio, che sarà la caratteristica del quarto verso “in un solo sospir l’anima spiro”. Questo terzo motivo-parola è contraddistinto dal repentino cambio di modo, maggiore minore e di nuovo maggiore, che, assieme all’andamento totalmente omoritmico in contrasto con le bat. 6-10, serve a rendere espressivamente l’avvenuta trasformazione, descritta nel testo. 
Il quarto verso “in un solo sospir l’anima spiro” è ripetuto tre volte, attraverso l’elaborazione timbrica dello stesso materiale melodico-ritmico. Melodicamente il motivo è una palese derivazione del tema iniziale “Cor mio”. Questa corrispondenza melodica è giustificata, secondo la teoria degli affetti, dalla corrispondenza testuale, secondo cui i sospiri sono provocati dall’amore. Qui si riconosce ancora un prototipo della tecnica del basso continuo. La pausa che precede la parola sospiro, diventerà nel linguaggio musicale seicentesco l’archetipo della figura retorica della suspirazio. Sulle parole “In un solo”, l’utilizzo del ribattuto sulla medesima nota si identifica palesemente nel senso di “unicità” espresso dal testo. Sulla parola anima compare la figurazione semiminima col punto croma. La vivacità ritmica diventa quindi simbolo della vita e quindi dell’anima. La triplice ripetizione del verso corrisponde alla figura retorica della paronomasia, enfatizza il dolore del poeta, che in opposizione a quanto dice nel testo non spira in un solo sospiro, ma per amore pena a lungo. In questo motivo parola si riconosce poi la figura retorica della catabasi associata al verbo spirare. Nella prima esposizione a bat.13 il motivo al canto e accompagnato per terze parallele dall’Alto, mentre il basso recita ancora il testo del verso precedente. Questa tecnica ad incastro fra i motivi parola rende il linguaggio monteverdiano senza soluzione di continuità, e ancora una volta siamo di fronte ad un modello nel quale una linea melodica, più la sua terza parallela, sono accompagnate da un’altra voce che si può identificare in un basso continuo. La prima ripetizione del testo a bat.16 è affidata alle tre voci inferiori. La melodia è la medesima ma qui viene elaborata attraverso una tecnica riconducibile a quella del “falso bordone” con un andamento con triadi in primo rivolto. L’ultima ripetizione ha una stretta imitativa tra il canto e le tre voci centrali, e a bat.22 si raggiunge il climax. La catabasi melodica successiva si amplifica e copre nel canto una nona magg. Tale discesa è accompagnata da un repentino assottigliamento dello spessore sonoro, ottenuta a bat.23 con l’improvviso tacere di tenore e quinto, secondo la figura retorica dell’aposiopesi. Ed in fine sulla figura retorica dell’epanalessi, che è la ripetizione delle parole l’anima mia spiro come fossero una coda, il suono si spegne a bat.24 nell’unisono a Re, in modo da simboleggiare la morte del poeta.
Il quinto e il sesto verso, “O bellezza mortale, O bellezza vitale” esprimo il concetto di una bellezza, oggettiva e soggettiva, che allo stesso tempo è mortale e vitale, in quanto l’amata è la sola responsabile del destino sentimentale del poeta. Secondo la totale inscindibilità fra testo e musica che comporta le teoria degli affetti, Monteverdi utilizza lo stesso identico materiale musicale per questi due versi, trasportando però il secondo un tono sopra. Questa salita di tono diventa quindi l’unico parametro sonoro che rappresenta la differenza tra mortale e vitale. In questo motivo parola il ritmo verbale della parola bellezza si identifica con il ritmo musicale semiminima col punto-croma, che in precedenza caratterizzava la parola anima. L’accento tonico è spostato sul tempo debole per enfatizzare ancora di più questo duplice aspetto della bellezza. Modalmente si passa qui da un protus, più o meno costante in tutta la prima sezione, ad una zona bat.25-32 dove prevale l’idea di una tonalità maggiore, avvalorata dall’andamento in progressione: IV-V-I di Fa - cadenza a Do, e IV-V-I Sol – cadenza a Re. Questo motivo, con la sesta magg. discendente al Canto, verrà poi utilizzato come primo motivo parola del madrigale “O Mirtillo, Mirtillo anima mia” appartenente al quinto libro di madrigali dello stesso Monteverdi. Questa “autocitazione” dimostra il processo di semplificazione e la codificazione in stereotipi che il compositore cremonese apporta al suo linguaggio musicale. Le figure retoriche rinascimentali si cristallizzano così in stilemi ben definiti. L’attenzione creativa del compositore non è quindi più rivolta alla sovrapposizione contrappuntistica di linee, ma si è ormai spostata su altri parametri quali timbro e melos.
L’enjambement logico posto fra il verso “O bellezza mortale, O bellezza vitale”, e la prima parte dell’ottavo “poiché sì tosto un core, per te rinasce” è reso musicalmente anche dal Monteverdi. Egli per rendere esplicito il fatto che il cuore rinasce grazie alla bellezza, sovrappone i due testi, in modo da formare un’unità logico formale indivisibile. Il tenore ripete così i primi due versi della seconda quartina, mentre altre due voci cantano l’altro motivo parola. Quest’ultimo è affidato a due voci che partite da un unisono procedono poi per terze parallele. In questa tecnica si riconosce ancora affacciarsi dello stile linguistico-musicale del basso continuo. Ci sono quattro entrate poste in progressione per quinte: QA a Do, CA a Sol, di nuovo QA a Re, e CA a La. Anche in questa sezione si vede come ormai il rapporto tonale tonica-dominante si vada ormai affermando sempre di più. Il basso tace per tutta questa sezione ed entra a bat.41 dove c’è la quinta ripetizione in perfetto stile omoritmico di questo motivo parola ora non più accompagnata da quello precedente. Questa sezione è articolata in tre salite consecutive: dal Do del QA di bat.33 al Re del C a bat.37, dal Re del QA di bat.37 al Mi del C a bat.40 dove si raggiunge il climax, e da bat 41 a 43 dove tutte le voci, tranne l’alto che tace, salgono velocemente di una settima. Tutta questa sezione è una grande e lenta ascesa, che si identifica nella figura retorica dell’anabasi, che qui serve a simboleggiare la rinascita, non a caso le prime due salite si copre una distanza melodica di una nona, intervallo che simboleggia il nuovo inizio della scala, quindi la rinascita. A bat.43 troviamo di nuovo la figura retorica dell’epanalessi, coincidente con la ripetizione di una parte del testo alla fine del motivo parola. Giunti a questo culmine improvvisamente la densità sonora creata da quattro voci cessa e sia ha, con cinque entrate in stile imitato, una veloce discesa nella quale si identifica la figura retorica della catabasi utilizzata come simbolo della morte. La linea ascendente di questo motivo sulle parole per te nato, compie un brusco salto di settima discendente in corrispondenza della parola more. Il motivo chiude con una cadenza perfetta a Re magg., che essendo anche il primo accordo lega concettualmente la morte al cor mio, quindi all’amata.
Dall’analisi di questo madrigale si vede come ormai il linguaggio monteverdiano sia nei primi anni del seicento in evidente evoluzione. La tecnica imitativa, imperante nei madrigalisti della precedente generazione, è ormai praticamente assente, e anche dove appare è estremamente semplificata e libera da qualsiasi regola canonica. Questo aspetto di semplificazione aumenta l’espressività della linea melodica che, soprattutto nella voce superiore acquisisce i primi caratteri del melos del reicitar-cantando. Il rapporto testo-musica diventa nella seconda pratica il cardine del linguaggio compositivo, e il ritmo verbale si è ormai identificato con quello musicale. Per cui un collegamento testuale come quello tra cor mio e sospiro, dove è la donna amata che fa sospirare, non può non essere musicato con un evidente richiamo tematico. In questo nuovo linguaggio l’immediato madrigalismo onomatopeico dei compositori di fine ‘500 quali Marenzio, Gesualdo, De Rore, si trasforma in un più complesso codice, a servizio dell’espressività del testo e del suo contenuto emotivo. L’Artusi, aveva giustamente censurato questo nuovo modo di comporre, non rispettoso delle regole accademiche. Egli però non aveva capito che il linguaggio musicale di Monteverdi era in piena evoluzione. Il compositore cremonese chiama ancora Madrigale una composizione che del madrigale cinquecentesco ha ormai ben poco. L’alto livello artistico raggiunto da Monteverdi in questo madrigale sta proprio in questa totale aderenza fra la musica e la intima rappresentazione psicologica che il testo suggerisce. La composizione musicale va sempre più caratterizzandosi stilisticamente, assecondando l’ambientazione letteraria, psicologica e emotiva del testo. Infatti si vede come in questo madrigale, Monteverdi, non abbia inserito una sezione a valori lunghi con le dissonanze, come fa nel madrigale “O Mirtillo” per connotare in maniera forte la crudeltà di Amarilli. Qua si coglie poi al meglio la grande capacità e la fantasia con la quale il compositore riesce a elaborare, poche e semplici idee musicali in un discorso formalmente perfetto, e di grande tensione emotiva. Grazie al nuovo linguaggio della teoria degli affetti, che in questo madrigale inizia ad affermarsi, Monteverdi approderà attraverso l’utilizzo di un testo dialogico, prima a quello che verrà chiamato madrigale rappresentativo, quindi alla pura monodia accompagnata del dramma per musica.

mercoledì 1 ottobre 2008

Palestrina - Super flumina babilonis

Questo mottetto, stampato nell’anno 1581, rappresenta una delle più alte espressioni dell’arte Palestriniana. Nel suo linguaggio l’imitazione non è un solo artificio, ma diventa una tecnica al servizio e dell’espressività della parola e del pensiero. L’importanza musicale del Palestrina nella controriforma sta, come vedremo anche in questo Mottetto, nella sua grande capacità di saper utilizzare nel migliore dei modi la tecnica compositiva in senso espressivo. Il mottetto è diviso in cinque episodi, corrispondenti ai versetti che compongono il testo di questo salmo che racconta la deportazione del popolo d’Israele in Mesopotamia. Questi versetti sono: “Super flumina Babilonis”, “Illic sedimus, et flevimus”, “dum recordaremur tui, Sion”, “in salicibus in medio ejus”, e “suspendimus organa nostra”.
Il primo episodio è di carattere imitativo. Il motivo-parola, inizialmente esposto al bassus, è lungo quattro battute e mezzo. Il suo profilo melodico procede sempre per grado congiunto, fatta eccezione per l’intervallo di terza minore (la-do) che idealmente lo divide in due parti. La prima parte del tema Super flumina è caratterizzata ritmicamente da una progressiva diminuzione dei valori, e melodicamente dal semitono diatonico discendente. Questo movimento è una variante della figura retorica del planctus. Questa linea melodica disegna un profilo ondeggiante nel quale si può riconoscere l’onda del fiume (vedi similitudine con il tema del madrigale “Ecco mormorar l’onde” di Monteverdi). L’inizio prende quindi la forma di un’invocazione lamentosa e piena di dolore. La seconda parte Babilonis, è una discesa per grado congiunto che copre una sesta. Qui si può riconosce la figura retorica della catabasi usata solitamente in relazione a contenuti testuali quali “scendere”, “inferno” e “peccato”. In questo caso potrebbe connotare Babilonia come luogo e simbolo di perdizione. Nella costruzione di questo motivo parola si può ancora vedere una particolare insistenza sulla finalis La. Questa nota, infatti, è usata con valori più o meno lunghi per ben quattro volte. Questo fatto conferisce al tema una forte staticità, che potrebbe esprimere il concetto della permanenza in schiavitù degli ebrei nella terra Babilonese. Le voci una volta finita l’esposizione del motivo-parola proseguono, in contrappunto fiorito, con linee melodicamente e ritmicamente riconducibili al motivo iniziale. A bat.5 e seguenti nel bassus viene elaborato per moto contrario il frammento melodico semiminima col punto più croma di Babilonis. Vediamo poi come la parola “Babilonia” sia sempre connotata, come si diceva sopra, da una linea discendente, e dal caratteristico inizio con la semiminima puntata. Questo disegno trova la sua maggiore elaborazione nel vocalizzo a bat. 11 e 12, dove c’è l’imitazione ravvicinata tra cantus e la coppia altus-tenor. Procedimento questo che ricorda molto lo stile di Orlando di Lasso. Da qua, si comprende come il concetto di composizione nel rinascimento era soprattutto basato sulla elaborazione dei materiali, e non come invenzione e creazione. La struttura imitativa di questo primo episodio è costruita con un progressivo allontanamento delle entrate delle voci: l’altus a bat.2, il cantus a metà di bat.5, il tenor a metà di bat.10. Questo fatto può simbolicamente rappresentare l’allontanamento del popolo ebreo dalla patria. Confrontando il tema esposto al basso con quello alla repercussio esposto all’altus, si nota come il suono Sol#, sia un’alterazione cromatica della subfinals. Ciò evidenzia l’affermarsi nel linguaggio rinascimentale di una sensibilità tonale. 
C’è una prevalenza delle entrate sulla finalis: tre contro una sola entrata sulla repercussio. Questo conferisce all’intero episodio una forte stabilità modale al protus in La, o IX modo del Glareano. Ciò non è altro che lo sviluppo macroformale della stabilita del tema sulla nota La. Questa stabilita esprime ancora di più la situazione di permanenza forzata espresso delle parole del primo versetto. La microstruttura del tema con la sua chiusura melodica Fa-Mi a bat.4-5, è poi trasferita nella macrostruttura del primo episodio. A bat.13 la cadenza perfetta a La è ampliata dal passaggio sulla triade di Fa maggiore, enfatizzata dal ritardo della terza al cantus, e dall’ulteriore dissonanza provocata dalla linea dell’altus che si muove parallela al cantus per settime (la nota reale La si configura come una nota di volta). Questo arricchimento della cadenza con ritardi e note di passaggio viene chiamato pleonasmo, e serve in questo caso a conferire al Fa magg. una forte tensione che si risolve sulla repercussio Mi. In questo modo la cadenza perfetta a La, che avviene con una netta rarefazione sonora perde di importanza. Questa particolare conduzione delle voci può servire a rendere musicalmente l’idea dell’allontanamento e dell’isolamento, presenti nel contenuto testuale di questo salmo. 
Il secondo motivo parola ha inizio a bat.14. Il testo si riferisce al momento della riflessione del popolo d’Israele che dopo un lungo cammino, una volta giunto sui fiumi di Babilonia prende veramente coscienza del proprio stato di schiavitù. Il testo infatti dice: “Illic sedimus, et flevimus” lì ci sedemmo e piangemmo. Il lamento che inizialmente era implicito, affidato all’espressività della linea melodica, diviene qui esplicitamente dichiarato dal testo. Palestrina rappresenta musicalmente questo stato d’animo utilizzando la “noema”, figura retorica che si identifica appunto con il concetto di pensiero. Questo motivo-parola contiene i due predicati-verbali del discorso: sedemmo e piangemmo. L’andamento omoritmico, tipico della noema, è qui utilizzato per rendere più immediato il significato del testo. Il verbo “sedersi” è espresso con un brusca discesa timbrica verso il basso a bat.14, che sembra essere la rappresentazione musicale dell’azione dell’abbassarsi. L’omoritmia, inizialmente osservata da tutte le voci, vedi bat.14-15, lascia poi spazio a brevi andamenti melodici (nel tenor a bat.16 e 19, nel cantus a bat.17 e 22, infine nell’altus a bat.22) che movimentano il ritmo sulla parola flevimus, e che descrivono musicalmente questo gemito. A bat.19 il testo viene ripetuto, l’omoritmia delle voci è ancora parzialmente presente ma si procede con una imitazione tre voci contro una. A bat.21 la parola et flevimus è musicata con la tecnica dell’imitazione ravvicinata due voci con la partenza sul tempo debole (cantus e altus) contro le altre due sul tempo forte. La pausa a bat.21 nel cantus e nell’altus ha la funzione retorica della suspirazio. Questa tecnica è utilizzata in modo da sottolineare l’espressività della parola, in questo caso il singhiozzare del pianto. Il suono Do# dell’altus a bat.14 muta improvvisamente la modalità iniziale. Dal XI modo glareano, si passa ad un vero protus a Re. In questo episodio si nota la prevalenza di triadi maggiori messe in successioni armoniche tipiche del linguaggio modale (vedi bat.16 falsa relazione tra bassus e altus Do-Do#). Questa zona assume quindi un colore sonoro contrastante rispetto al “La minore” del primo episodio. Il motivo-parola è ripetuto due volte ed entrambe le volte è chiuso da una cadenza sulla repercussio: la prima sulla triade di La magg. a bat.18, la seconda sulla triade di Mi magg. a bat.23. Questo repentino cambiamento di modo, anch’esso nettamente in contrasto con la staticità dell’inizio del mottetto, e queste sospensioni sono aspetti che si riferiscono all’idea di turbamento e di disperazione e quindi al pianto del popolo ebreo.
Il terzo episodio e di nuovo di carattere imitativo. Questa tecnica compositiva assolve qui la funzione retorica della ridondanza. L’altro parametro fondamentale di questo episodio è il timbro. Il motivo-parola è una chiara elaborazione del primo tema: l’intervallo di terza presente al centro del primo motivo parola diventa la caratteristica iniziale di questo motivo parola, mentre la discesa per grado congiunto Do-Mi rimane invariata. Il tema è proposto in imitazione sette volte (cinque sulla repercussio Mi e due sulla finalis La). Questo numero particolarmente importante per la religione ebraica serve a sottolineare la parola Sion. Il motivo-parola è poi accompagnato da altre linee discendenti di chiara derivazione tematica in contrappunto imitato. Questa dialettica tematica, può rappresentare il duplice aspetto del ricordo di Sion: ricordo positivo perché patria amata, ma nello stesso tempo negativo perché lontana e abbandonata con la forza. Questo episodio a bat.33 ha una cadenza perfetta a La, composta dalla quarta e sesta preparata e risolta come doppio ritardo della terza e quinta e con il salto principale nella voce inferiore (tenor), che divide una prima sezione dove i due temi, retto e contrario e quindi il ricordo positivo e negativo si equivalgono, da una seconda parte dove si afferma il motivo parola principale e quindi in pensiero positivo. Il movimento ascendente di crome nell’altus infatti, riapre immediatamente il discorso musicale che riprende con l’imitazione del tema fino a bat.39, dove c’è un’altra cadenza a La, questa volta configurata come una repercussio.
Il quarto motivo-parola è “in salicibus in medio ejus”: nella sua linea ad arco si riconosce un’ulteriore elaborazione tematica del tema originale. L’intervallo di terza minore è ora riempito dal passaggio per grado congiunto, quindi si ha ancora una discesa, sempre per grado congiunto. La cellula ritmica semiminima col punto – croma viene ora utilizza in due battute ravvicinate. Questa tecnica di elaborazione tematica subirà poi nell’ultimo episodi un’ulteriore sviluppo, dove questa cellula verrà messa in progressione. Questo quarto episodio comprendente le bat.39-55, è di carattere imitativo, ed è diviso in due sezioni da una duplice cadenza a bat.46 e 47, la prima a Re e subito dopo una a Fa. Queste due cadenze così ravvicinate servono però come snodo armonico, in modo da non creare una cesura troppo forte con la seconda partenza tematica. Nella prima parte ci sono tre entrate del tema. Particolare è l’entrata del tema a bat.39 del tenor e del bassus che si muovono per terze parallele. Questa conduzione delle parti, tipicamente non contrappuntistica, esprime l’esigenza del compositore di dare particolare forza espressiva a questo testo attraverso l’uso di un colore sonoro, ed un timbro ben determinato e riconoscibile. Questa tecnica verrà poi ulteriormente sviluppata nell’ultimo episodio, dove sarà presente in ogni entrata tematica. Da bat.46 il tema è ripetuto con la tipica partenza imitativa a terrazze dal bassus al canto. Questa seconda sezione porta ad una cadenza sospesa in Sol. L’ultimo episodio “suspendimus organa nostra” è il più lungo dei cinque. Qui le dieci entrate imitative del tema, assolvono il fine retorico della perorazione. Il motivo-parola è costruito su di una progressione melodica discendente, come anticipato prima costruita sulla cellula ritmica semiminima col punto – croma. Tale andamento modulare serve a esprimere l’idea della sospensione. In questa ultima parte ogni ripetizione del motivo-parola è chiusa da una cadenza: bat.58 a La, bat.60 a Mi, a bat.62 a Fa, a bat.66 a Do, a bat.68 a Fa, ed in fine a bat.71 a Mi come repercussio di La. Questo continuo susseguirsi di cadenze ravvicinate a diversi toni crea un’atmosfera d’indecisione modale che serve ancora per sottolineare l’atmosfera di sospensione che sottintende il testo. Qui il gioco timbrico delle terze parallele diventa predominante. Questo colore viene sempre contrapposto all’entrata ravvicinata, come uno stretto, di una singola voce, in modo da creare la struttura due voci contro una. L’ultima entrata del bassus avviene sul battere per enfatizzare il ritardo della terza al cantus. Abbiamo quindi la stretta finale con l’imitazione tra la coppia Tenor e altus contro il cantus sul testo organa nostra. La pausa del cantus a bat.69, come fosse l’ultimo sospiro, serve per mettere ancora più in risalto l’ultima entrata. L’ultima cadenza si configura come ciò che oggi definiremmo cadenza sospesa. Essa è ottenuta con la successione delle triadi perfette di FA, RE, e MI, che nel linguaggio tonale chiameremmo VI-IV-V grado. Questo andamento più di ogni altro ci fa capire come la sensibilità tonale, e il rapporto tonica-dominante alla fine del cinquecento si stava sempre di più affermando. Da notare poi che l’ultimo intervallo del cantus La-Sol# è il primo esposto all’inizio del mottetto dal bassus, ed è come se la composizione si richiudesse su se stessa. L’elevato livello artistico che Palestrina raggiunge in questo mottetto sta nel domino del materiale melodico, e nella sua capacità di elaborare il rapporto testo-musica tramite artifici tecnici semplici utilizzati in senso espressivo. L’artificio tecnico-compositivo non è mai utilizzato fine a se stesso, ma è sempre al servizio dell’espressività della parola. Abbiamo precedentemente visto come ogni motivo-parola sia l’elaborazione dello stesso tema iniziale, e anche come le parti libere sono sempre condotte come sviluppo di cellule melodico ritmiche riconducibili anche loro al tema. Questa forte unità tematica è poi utilizzata con grande fantasia in svariate tecniche contrappuntistiche ed imitative, che rendono il tessuto musicale in continua evoluzione, senza mai cadere nella ripetitività. Anche l’impianto modale viene utilizzato in senso espressivo. Il cambiamento modale avviene in corrispondenza di particolari zone del testo: Illic sedimus, et flevimus e suspendimus e serve a sottolineare un cambiamento di stato emotivo. La totale inscindibilità testo-musica, ottenuta con utilizzo di tutti i parametri musicali fa di questo mottetto, come asserito all’inizio dell’analisi una delle più alte espressioni dell’arte Palestriniana.